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c a n t o   xvii. 489   

22Ditte mi fuor di mia vita futura
     Parole gravi, avvegna ch’io mi senta
     Ben tetragono ai colpi di ventura.
25Per che la vollia mia seria contenta1
     D‘intender qual fortuna mi s’appressa:
     Chè saetta previsa vien più lenta.2
28Così diss’io a quella luce stessa,
     Che pria m’avea parlato; e, come volle
     Beatrice, fu la mia vollia confessa.3
31Non per ambage, in che la gente folle
     Già s’invescava, pria che fusse anciso
     L’Agnel d’Iddio che le peccata tolle;
34Ma con chiare parole, e con preciso4
     Latin rispuose quello amor paterno,
     Chiuso e parvente nel suo chiaro riso:5
37La contingenzia, che fuor del quaderno
     De la vostra materia non si stende,
     Tutta è dipinta nel cospetto eterno.
40Necessità però quinde non prende,
     Se non come dal viso in che si specchia
     Nave, che per torrente giù discende.6
43Da indi, siccome viene ad orecchia7
     Dolce armonia d’organo, mi viene
     A vista ’l tempo che ti s’apparecchia.
40Qual si partì Ipolito d’Atene
     Per la spietata e perfida noverca;
     Tal di Firenze partir ti convene.

  1. v. 25. C. A. la voglia mia saria
  2. v. 27. C. A. provisa
  3. v. 30. Confessa; confessata, come mostro, torno per mostrato, tornato. E.
  4. v. 34. C. A. Ma per chiare
  5. v. 36. C. A. suo proprio riso:
  6. v. 42. C. A. per corrente
  7. v. 43. C. A. Da indi sì, come