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c a n t o   xiii. 383   

49Or apri li occhi a quel ch’io ti rispondo,
     E vedrai ’l tuo creder e ’l mio dire
     Nel vero farsi, come centro in tondo.
52Ciò che non muore e ciò che può morire,
     Non è se non splendor di quella idea,1
     Che parturisce, amando, il nostro Sire:2
55Chè quella viva luce, che sì mea3
     Dal suo Lucente, che non si disuna
     Da lui, nè da l’Amor che in lor s’intrea,4
58Per sua bontate il suo raggiar aduna,
     Quasi specchiato in nove sussistenzie,
     Eternalmente rimanendosi una.
61 Quinde descende a l’ultime potenzie
     Giù d’atto in atto tanto divenendo,
     Che più non fa che brevi contingenzie;
64E queste contingenzie esser intendo
     Le cose generate, che produce
     Con seme e senza seme il Ciel movendo.
67La cera di costoro e chi la duce,5
     Non sta d’un modo, e però sotto ’l segno6
     Ideal poi più e men traluce;
70Unde elli avvien che un medesimo legno,
     Segondo spezie e mellio e peggio frutta,
     E voi nascete con diverso ingegno.
73Se fosse a punto la cera dedutta,
     E fusse ’l Cielo in sua virtù suprema,
     La luce del suggel parrebbe tutta.

  1. v. 53. C. A. è splendor, se non di
  2. v. 54. C. A. partorisce
  3. v. 55. C. A. che s’innea
  4. v. 57. C. A.Da l’un, nè dall’
  5. v. 67. C. A. l’adduce,
  6. v. 68. C. A. stan d’un
   Par. T. III. 25