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[v. 74-93] | c o m m e n t o | 27 |
stensione ad uno lago: imperò che, La novità del sono; ch’io Dante avea udito, che fu l’armonia dei giri de’ corpi celesti, e ’l grande lume; che m’apparve nel Cielo che fu lo corpo della Luna: imperò che mai non aveva sentito sì dolce suono, nè veduto sì grande lume, Di lor cagion; cioè sapere, m’acceser; cioè accesono a me Dante, un disio; cioè uno desiderio, Mai non sentito; più da me, di cotanto acume; cioè di tanto pungimento quanto fu quello. Lo ferro acuto più punge che l’ottuso, e però l’acume si pone per la punzione e per la simulazione l’acume, e così dimostra l’autore che li venisse grande vollia, anco grandissima: imperò che mai non l’ebbe sì grande di sapere la cagione di quel suono sì dolce, e di quello lume sì grande; le quali cagioni sono state manifestate da me: imperò che del suono è stato detto ch’era cagione lo rotamento dei Cieli, li quali nel suo girare e nel toccamento che fanno l’uno co l’altro generano sì dolce armonia; e della fiamma era cagione lo globo lunare lo quale elli vedea essere illuminato tutta la sua metà dai raggi solari, e però àe ditto che li parea che sì grande parte del Cielo ardesse accesa della fiamma del Sole, che mai pioggia o fiume non fece lago tanto steso. E qui si può dubitare che cagione è che li corpi grandi celesti tondi appaiano piani, quando sono oppositi ai nostri occhi, e quando sono giù sotto noi, come la terra, ci appaiano lunghi? Et anco si può dubitare: con ciò sia cosa che la virtù visiva 1 sia sita e che siano sì da lungi, che tanto non si stenda, come si possano vedere? Al primo si può rispondere che i raggi visuali da lungi si riflettino sì debilemente per la distanzia, che benchè l’uno si distenda più dell’altro non rappresenta quella differenzia; al secondo si può rispondere che li raggi, benchè si dilatino, vanno ritti e non si possano piegare in giuso, nè non si possano tanto dilatare che 2 comprendano tutto lo corpo della terra, nè per lungezza 3, nè per largezza, e però veggiamo pur la sua linea lunga; al terzo si dè rispondere che è per Virtù Divina che à voluto che noi veggiamo la bellezza della natura creata, acciò che n’abbiamo contentamento et incitamento a volere andare lassù, come dice questo autore: Chiamavi il Cielo e intorno vi si gira, Mostrandovi le sue bellezze eterne, E l’occhio vostro pur a terra mira.
C. I — v. 85-93. In questi tre ternari lo nostro autore finge come Beatrice cognobbe, senza manifestare, lo suo fervente desiderio, e però con brevi parole li dichiarò le cagioni del canto e dello lume che sentitte in Cielo, dicendo così: Onde ella; cioè vidde, und’ella; cioè Beatrice, che; cioè la quale, vedea me sì com’io; cioè per quel modo che io veggo me medesimo, aprio la bocca; cioè