Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
[v. 76-84] | c o m m e n t o | 265 |
nel 1282 in cal. aprile Palermo si ribellò dal re Carlo, et ucciso lo iustizieri che v’era per lo re con tutti li Franceschi che v’erano con lui, fece ribellare anco Messina, poco stante, e tutte l’altre terre di Sicilia; e moltitudine grande di Franceschi, che v’erano per lo re Carlo, vi furno morti con ferro e fuoco, e molti messi in prigione; et allora intrò don Piero re di Ragona in Sicilia, mandato sua ambasciaria ai Siciliani proferendosi loro; et allora concordevilmente fu eletto da’ Siciliani per re. E perchè la Sicilia si perdè per mala signoria, però finge l’autore che Carlo Martello dica che sarebbe stata sua e de’ suoi figliuoli, se non fusse stato occupato lo regno dal fratello, e se la Sicilia non fusse stata perduta prima; e però dice: Se mala signoria; fatta per li Franceschi in Sicilia, che; cioè la quale, sempre accora; cioè fa gagliardi, Li populi subietti; li populi sottoposti, quando si vedeno mal signoroggiare, si disperano e diventano gagliardi contra li signori, e ribellanosi, non avesse Mosso Palermo; questa è una delle migliori citta di Sicilia, a gridar: Mora, mora; cioè lo iustizieri e li altri Franceschi che v’erano. E qui finisce la prima lezione del canto ottavo, seguita la seconda.
E, se mio frate ec. Questa è la seconda lezione del canto ottavo, nella quale l’autore finge come Carlo Martello continuò lo suo ragionamento con lui, parlando delle condizioni del re Roberto, onestamente et occultamente riprendendo la sua avarizia, reflettendo la colpa nelli officiali, rispondendo a’ dubbi che l’autore mosse. E dividesi tutta in sei parti: imperò che prima finge che parlasse delle condizioni del re Roberto; nella seconda finge com’elli mosse uno dubbio al detto spirito, cioè come possa essere che di buono seme esca mal frutto, et incominciasi quine: Però ch’io ec.; nella terza finge che lo detto spirito incominciasse a rispondere al dubbio ponendo questa conclusione, cioè che ogni cosa è proveduta da Dio, et incominciasi quine: Lo Ben, che tutto ec.; nella quarta finge che adiunse un’altra conclusione, cioè che al vivere civile conviene essere diversità di condizioni, et incominciasi quine: Ond’elli ancora: ec.; nella quinta finge come argomentando conchiuse unde era la diversità delle cose, et incominciasi quine: La circular Natura, ec.; nella sesta finge come ragionando dichiarò unde era che in una medesima condizione uno vi vale et un altro no, et incominciasi quine: Sempre Natura, ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo coll’allegorica e litterale esposizione.
C. VIII — v. 76-84. In questi tre ternari lo nostro autore finge come, continuando Carlo Martello lo suo ragionamento, discese a parlare della condizione del suo fratello; cioè del re Roberto, riprendendolo della avarizia sua e delli officiali catalani avarissimi ch’elli teneva, dicendo: E, se mio frate; cioè lo re Roberto, questo; cioè