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p a r a d i s o i. |
[v. 13-36] |
confusi questi nomi e posto alcuna volta l’uno per l’altro, e posto ancora che ’l Sole, Febo, et Appollo sia uno medesimo, benchè nella geneologia delli iddii si trovino essere stati diversi uomini. Questo Appollo alcuna volta li Poeti presono per lo dio della sapienzia, alcuna volta per lo dio della medicina, alcuna volta per lo dio della divinazione, et alcuna volta per lo Sole. Ora lo nostro autore lo invoca come Iddio della sapienzia, e per lui intese lo Verbo Divino ch’è sapienzia del Padre, e però si dè intendere: O buono Appollo; cioè o vera sapienzia d’Iddio Padre, che se’ lo suo figliuolo, a l’ultimo lavoro; cioè a l’ultima parte del mio poema, cioè alla terza cantica della mia comedia, che è la mia fatica e la mia opera, Fammi sì fatto vaso; cioè fa me sì fatto recettaculo, del tuo valor; cioè della tua grazia, Come dimanda dar l’amato alloro; cioè come digno è che si dia a chi ama l’allorio: l’allorio è arbaro che sempre sta colle follie, et è sempre virente, et è consecrato ad Appolline: imperò che la sapienzia sempre è verzicante, e però si coronano li Poeti di corona d’allorio in segno che la loro scienzia e la loro fama sempre dè essere virente, et anticamente si coronavano d’ellera per la predetta cagione; e però chi ama l’allorio; cioè di essere coronato d’allorio, ama la poesi, e chi ama la poesi conviene che abbia de la sapienzia che è dono di Iddio. Insino a qui; cioè insino a questa terza cantica, l’un giugo di Parnaso; cioè Citeron, ve s’onorava Baco che era lo dio della pratica, et eravi la cita chiamata Nisa, e giù al bosco e a la fonte lo tempio consecrato a Baco, e la città dove era lo studio delle scienzie pratiche, Assai mi fu; cioè a me Dante. Dice l’autore che in fine a questa cantica li è vastato lo studio delle scienzie pratiche a trattare de la materia della prima cantica e della seconda; cioè delle virtù politiche e morali co le quali l’uomo si cessa dal peccato, e va alle virtù purgatorie colle quali si sodisfa a la colpa; e così si viene a lo stato della innocenzia, ve sono le virtù dell’ animo purgato; cioè contemplative a le quali è bisogno la teorica e la pratica: imperò che non bastarebbe pur la pratica; e però ben dice ora: ma or; cioè in questa terza cantica, con ambedue, cioè iughi di Parnaso; cioè Citeron et Elicon, M’è uopo; cioè m’è bisogno a me Dante, entrar ne l’ aringo rimaso: aringo è lo spazio da correre; ma qui si pone per la materia che à a trattare l’autore; cioè la gloria dei beati, quasi dica: Infino a qui abbo trattato la mia materia co le scienzie pratiche; ma da quici inanti m’è mestieri d’usare e le pratiche e le teoriche: imperò che sono cose contemplative et anco attive. Del monte Parnaso e dei suoi iughi e delli studi che sono in esso è stato detto nella cantica seconda, canto xxxi; e niente di meno, perchè di sopra abbiamo detto di Citeron che è uno de’suoi iughi,