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xxviii vita di dante.


Stette per poco a Ravenna presso Guido da Polenta padre di Bernardino, che aveva in Campaldino combattuto con Dante, e di Francesca da Rimini. Nel 1314 gli era a Lucca, innamorato di giovane donna, accoltovi o almeno sofferto da Uguccione signore di Pisa, che l’aveva cacciato d’Arezzo. Da questo vedi se Uguccione potess’essere il Veltro, salute d’Italia.

Poteva Dante nel 1315 (altri vuole nel diciotto), pagando una multa e presentandosi in chiesa con un cero alla mano, riavere la patria: rifiutò i vili patti con lettera memoranda. Onde i nemici irritati rinnovarono la condanna. Si rifuggì poi presso Cane della Scala, che in sul primo l’accolse degnamente: ma poi pare gli usasse men riverenza, o nojato dall’indole tetra del Poeta, o preso dalla solita volubilità de’ potenti. E, a quanto pare, gli diede l’uffizio di giudice, non tant’umile forse quant’altri pensa. Irriverente affatto non è da credere fosse mai: chè non avrebbe Dante nella dedica (da taluni stimata apocrifa non vedo perchè), nella dedica, dico, del Paradiso non anche finito, osato o degnato parlargli delle proprie necessità: urget me rei familiaris egestas.

Dimorò nel Friuli presso il patriarca Torriano, guelfo: a Gubbio, presso Bosone, suo comentatore poi, e già esule anch’egli, ghibellino; a Ravenna, sempre coll’animo più scuorato, e più alto il pensiero. Poco avanti la morte, diede fine al poema. Circa il 1308 gli era forse morta la moglie, e prima o poi, due figliuoli de sei.

E forse dopo compiuto il poema, cominciò quella storia di parte guelfa e ghibellina, che accenna il Filelfo; e continuò, o, cominciato, finì il Trattato della Monarchia, dove s’ingegna di porre i limiti tra il sacerdozio e l’impero; di dimostrare come il diritto dell’imperatore è divino, e come spetta a lui da lontano vigilare sopra le sorti de’ popoli, senz’offesa de’ nazionali poteri e delle franchigie municipali. Applicando alle cose del reggimento quel che sant’Agostino pensò de’ religiosi fini ai quali era serbata la romana grandezza, e’ voleva conciliare l’unità politica con le civili libertà, gli opposti vantaggi di parte guelfa e di parte ghibellina. Le voglie dei Ghibellini d’allora non erano nè tanto strane nè tanto dotte. Lui morto, quel libro fu invocato da Lodovico il Bavaro, al quale era indirizzato, e che nel suo ghibellinesimo violava i diritti della sede con le ambizioni della corte; onde il libro fu arso per cenno d’un cardinale, e per poco non sparse al vento le ceneri del Poeta. Alcune proposizioni poi di quello, dannate dal Concilio di Trento.

Sull’ultimo, che il nome di Dante era affettuosamente venerato da molti, Guido, signor di Ravenna, nipote di Fran-