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xxvi | vita di dante. |
so per qual fato esitanti, ben tosto si danno a vituperosa fuga. Allora forse il Poeta, sdegnato e scorato, si scosta dagli esuli.
Nell’agosto del 1306 gli era in Padova, e ci chiamava Pietro il figliuolo maggiore; che l’accompagnò poscia in Ravenna: poco dopo, era in Lunigiana presso i Malaspina, che lo eleggon arbitro d’una lite domestica: poco prima o poco dopo, se n’ hanno vestigie nel Casentino. Che in questo tempo e’ chiedesse, con la lettera: Popolo mio.che t’ho io fatto?, ritornare in patria, non so negare nè affermare: e parmi che, vivo il Donati, tale speranza dovesse parergli vana.
Su questo tempo pose mano al Convito, dove intendeva comentare quatttordici sue canzoni, a far mostra di scienza, e a presentare Beatrice come simbolo della purissima sapienza. Qui il simbolo ammazza la poesia: le citazioni soffocano la scienza stessa: e poche, ma potenti, incontransi le parole ispirate da quella virtù di fede amorosa e di coraggioso dolore che lo fece poeta.
Circa il medesimo tempo mise pur mano al Trattato del Volgare Eloquio, nel quale, dopo filosofato al suo modo intorno all’origine e alla natura dell’umano linguaggio, e’ discende alla lingua d’Italia e alla insufficienza letteraria de’ suoi dialetti: trattato il cui scopo è men filologico che civile, e mira a temperare il soverchio rigoglio del municipio, che fu la debolezza insieme e la forza della stirpe italiana. Perchè s’abbia, dic’egli, lingua letteraria degna, vuolsi una norma di perfezione alla quale attemperarla: e poichè le favelle d’Italia son tutte dell’altezza di tal norma minori, conviene da tutte scegliere le forme più evidenti, più nobili, e quelle che a più favelle ad un tempo siano comuni. Le cose che Dante con intendimento politico diceva dell’Italia antica, affine di congiungerne le forze sparte, taluni intesero torcerle all’Italia presente per sempre più le sue forze dividere. Ma a dimostrare quant’e’s’ingannino, basti avvertire che la Commedia da costoro additata come modello del dire illustre, è, nell’intenzione di Dante, dell’umile: e illustri al contrario le canzoni sue scritte ch’egli non aveva per anco lasciato Firenze. Ma qui non è luogo a disputare di ciò.
Quando avesse il Poeta smessi, quando ripresi, gli accennati lavori (de quali il Convito e il Volgare Eloquio rimasero incompiuti), impossibil cosa accertarlo. Nè crederei al Boccaccio, là dove narra che i primi sette canti del poema (fosser pure latini), dimenticati in Firenze, e trovati da un amico, e mandatigli nell’esilio, lo invogliassero a seguitare. Non a caso riprendonsi opere tali, che sono la vita