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430 INFERNO. — Canto XXVII. Verso 16 a 21

Ma poscia ch’ebber colto lor viaggio
     Su per la punta, dandole quel guizzo
     Che dato avea la lingua in lor passaggio,
Udimmo dire: tu, a cui io drizzo
     La voce, e che parlavi mo Lombardo, 20
Dicendo: istra ten va, più non t’adizzo,1




  1. V. 21 Vedi le chiose poste ai v. 3 e 16 del Com. Aggiungo che ho rimesso adizzo dov’era aizzo per la ragione stessa che ho rimesso istra e aggiungo che
    ho trovato dalla mia i Cod. BV, BU, BS, BP. I Frammenti universitari di Bologna aveano aizzo ed ebbero da poi un secolo chi un d gli soprappose. Il Land, il Cort. il Cassin. e il Laur. XL, 7 hanno la scelta mia.


di Cicilia uno orefice, il quale era molto sottile d’ingegno, e cognoscendo lo ditto orefice l’affezione di Fàlaro, pensossi di fare uno bue di metallo, il quale fosse di tanta grandezza, che uno uomo vi potesse stare entro, e feceli di sopra sulla groppa uno portello onde entrava l’uomo, che vi dovea essere messo dentro, lo quale poi si serrava con uno coperchio molto suggellatamente. Non avea lo detto bue sospirarne se non per la bocca, poi quando gli era messo lo malfattore entro e serrato lo portello, faceano uno smisurato fuoco sotto lo corpo del ditto bue, per la qual caldezza l’uomo che v’era dentro, gridava tanto che morìa: usciva la voce per la bocca del detto bue, e parea pur un toro che mugghiasse. Compiuto questo orefice, e avea nome Perillo, lo detto suo istrumento, si lo presentò al detto Fàlaro, esponendoli ch’elli sapea ch’elli si dilettava in novitadi di tormenti.

Lo ditto Fàlaro ricevuto questo presente, disse che volea ch’elli provasse tale pena, e ch’elli lo facasse mugghiare. Postovi dentro lo predetto Perillo, e fatto quel fuoco che bisognava, lo detto maestro dopo molto muggito, sì vi morì entro. E però dice che ’l predetto bue mugghìo prima eollo fleto del maestro che lo aveva fatto con sua lima; soggiunge che Fue dritto, imperquello che le sottilità e li ingegni delli uomini non denno essere a fine di disperazione e di crudelitade.

V. 13. Or fa comparazione del mugghiare della fiamma dov’era entro lo Conte, che era simile a quello del bue predetto, e ciò avenìa che la ditta fiamma non era furata sì che ne potesse escire la parola del peccatore intera.

16. Cioè quando tanto si fue scossa ch’ebbe preso lo modo di muoversi giungendo la punta della fiamma a somiglianza del guizzare che fa la lingua quando si parla, sì inteseno che dicea: o tu, che pur mo parlavi lombardo dicendo istra, ten va, più non t’adizzo (1), quando Virgilio acomiatò Ulixes, si furono le preditte pa- 1

  1. La Vind. testo e commento ha istra. Il R. nel testo ista, nel commento istra e cosi i Cod. che li seguono, a cui ò stato fedele il Witte, il quale ha bene inteso che qui lo spirito parlava lombardo. Di issa e istra vedi il detto al omm. al canto XXIII v. 7 e al fino del Canto e Comm. XVI. L’Ottimo, e il Foscolo e i quattro fiorentini non camminaron bene