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426 | INFERNO. — Canto XXVI. Verso 139 a 142 |
Tre volte il fe’ girar con tutte l'acque,
Alla quarta levar la poppa in suso, 140
E la prora ire in giù, com’altrui piacque,
Infin che il mar fu sopra noi richiuso.
Così li contò tutta sua aventura e vita e morte [*). E dice che il
poeta, udita questa novella si li disse parlando mantovano; sta ten
va, più non t'adizzo, cioè a dire : più non ti vo dimandare, va a
tua via. E qui finisce questo capitolo XXVI1.
- ↑ Questa chiosa che io traggo dal M. è certamenle dello stile del Lana. La Vind. ha invece: « Cioè che si levò syone — (R. sione, ma deve dir sifone) — » il quale li fè affondare e sommergere in mare e tutti s’annegono. E così gli ha contato tutta sua sventura e vita fino alla morte. E qui si compie la sentenza del presente capitolo (*) soggiungendo che il poeta, dittoli questa novella, li disse se parlando mantovano: istra te ne vae, più non t’adizzo, quasi a dire: più io non ti vo domandare, va a tua via ».
(*) (*) Tutto il seguente tratto ch’è nel Commento del Lana sì nel Codice Magliabecchiano che nel 1005 Riccardiano e nella Vindelina, manca al Codice Laurenziano XC, 121, il quale non ha che l’Inferno, e per esso in principio e in fine segue la Vindelina e nel corpo il Riccardiano assai spesso. Fu creduto interpolamento poco giudizioso d’altra mano, perchè le parole lombarde sono nel canto XXVII v. 21; ma anzi è giudiziosissimo perchè supplisce alla reticenza dantesca, la quale a chi legge nel canto successivo e tocca quel verso ricorre al canto già letto per cercare dove così licenziasse il dannato. Sta è errore; istra è mantovano che in più lombardo pronunciavasi issa, e valeva ora, come altrove asserisce il Lana.
Nota. In questo canto l'Ottimo ha preso poco o nulla del Lana, appena appena qua e là qualche suono ce lo ricorda.