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tedesco, quantunque celebratissimo, disammirò lo studio e la sollecitudine, pel quale disserterò qui con Voi e di Lui e di Dante a segno che sia di tutti quello che è di me: non essere, degli stranieri, alcuno possibile, per quanto duri e si coltivi in Italia, giungere a penetrare il finissimo e l’arcano magistero della nostra lingua se, de’ nostri, molti le finezze e i magisteri delle altrui più che qualche volta con maraviglia di essi raggiungono. La cagione dei fortunati italiani appunto è in ciò: che la filosofìa del nostro linguaggio supera per l’antichità in sublimità tutte quelle degli altri, come già la potenza civile di noi ebbe superata la potenza delle nazioni esterne. Invidiati prima, temuti poi, oppressi da sezzo, dai mali scaturirono i beni che l’ingordigia dei dominatori ci calcò, sopprimette le parti, raggruppò i popoli, e ci afforzò quanto mai forti non fummo a raccoglierci finalmente tutti e riaver mezzo, se avremo giudizio, a rifarci la potenza, e con essa quella supremazia civile che fra civili nazioni non può più essere pericolosa, essendo provata sapienza la prosperità dei popoli scendere non dalla preponderanza dei pochi sui molti, ma dalla sollecitudine fraterna della giustizia del bene mutuo e comune.

L’impresa, o Signori, che in tempi scorsi mi era stata impossibile avrebbe dovuto quella volta riuscire possibilissima: l’occasione solenne, la presenza del nostro Corpo letterato che non poteva avere migliore idolo ad onorare che Dante, la sua residenza nella Città illustre, e primo per età e per grandezza il Commentatore di quel maestoso poema, l’uffizio suo di pubblicare se inediti, o ripubblicare se dimenticati, i monumenti più onorevoli e utili della lingua nostra, mi lusingavano che avrei avuto modo di attuare il mio concetto. L’incomodo suo riducevasi alla copia del volume per consegnarsi ai torchi: per di contro l’onore grande. Ma con maraviglia mia e di tutti le cose si arrestarono ove meno da me era temuto: che si vedeva non possibile stampare sì gran mole in cinque mesi dal tipografo suo, ma non potevasi riconoscere officiale ciò che per altri torchi si stampasse, e quindi non doversi ne pure il minimo discomodo assumere per ciò che di non ufficiale si presentasse. Ma io son tenace de’ propositi, e d’animo non mi perdo: gli ostacoli alle