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C. XXXII — v. 16-24. In questi tre ternari l’autor nostro comincia a trattare del luogo e della materia sua, dicendo: Come noi fummo già nel pozzo oscuro; cioè Virgilio et io; e chiamalo pozzo e per la strettezza e per la profondità, et era vi oscurità, Sotto i piè del gigante; cioè d’Anteo, assai più bassi; che li piedi suoi, Et io; cioè Dante, mirava ancora all’alto muro; del pozzo, Dicer udimmo: Guarda come passi; da alcuno ch’era sotto i piè nostri, Va sì, che tu non calchi con le piante Le teste de’ fratei miseri, lassi; appellan sè medesimi fratelli, quanto alla generazione colui che parla; ma non quanto alla carità dell’animo, che non ebbono punto l’uno verso l’altro; e però aggiugne miseri, lassi. Perch’io mi volsi; cioè per questa voce, e vidimi davante, E sotto i piedi un lago; e questo era lo Cocito, del quale fu detto di sopra et ancora si dirà qui appresso, che per gelo Avea di vetro, e non d’acqua sembiante. E perchè le cose che si diranno di sotto sieno più chiare, è da porre in questo luogo la disposizione di questo nono cerchio, el peccato che finge l’autore che qui si punisce, e le sue spezie, compagne e figliuole e li rimedi contra esso e le pene che l’autor fìnge a tal peccato. E prima doviamo attendere che l’autor finge che questo cerchio abbi dentro da sè quattro cerchi, l’uno dentro all’altro sì, che il primo è al lato alla ripa che circunda il pozzo, e più largo di tutti, e questo si chiama la Caina; e perchè si chiami così, si dirà nel suo luogo. L’altro è dentro da questo, minore e chiamasi l’Antenora. Lo terzo è dentro al secondo, minore ancora e chiamasi la Tolomea. Lo quarto è dentro a questo, minore di tutti, a lato al centro nel quale è Lucifero, e chiamasi la1 Giudecca; e tutti questi quattro cerchi pendono in verso il centro sì, che benchè non vi sia distinzione, nè discenso, tutti pendono in verso lo centro, e l’uno è più basso che l’altro. Ora è da sapere che in questo nono cerchio radicalmente si punisce la superbia e la invidia, come si mosterrà in ciascuno luogo; e perchè della superbia fu detto di sopra cap. ix, quando si trattò del sesto cerchio, assai abondantemente, diremo ora qui della invidia che è sua figliuola, della quale si dice: Tolte matrem, et peribit filia; la quale si definisce così: Invidia è odio dell’altrui felicità, o vero: Invidia è tristizia nata dentro nell’animo d’alcuno per l’altrui felicità. E come detto fu di sopra cap. xiii, la invidia è figliuola della superbia, e però va sempre inanzi la superbia: imperò che da superbia viene non essere contento del bene altrui. E sono le spezie della invidia tre: imperò che l’una è invidia per zelo, come quando l’uomo desidera d’aggiungere et ancora d’avanzare chi è inanzi a lui in virtù et onore, et in questo si

  1. Da - Tolomea a Giudecca - è correzione secondo il Cod. Magliab. E.