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c a n t o   xxxi. 783

130Così disse il Maestro; e quelli in fretta
      La man distese, e prese il Duca mio,
      Ond’Ercole sentì già grande stretta.
133Virgilio, quando prender si sentio,
      Disse a me: Fatti in qua, sì ch’io ti prenda;
      Poi fece sì, ch’un fascio era elli et io.
136Qual pare a riguardar la Garisenda
      Sotto il chinato, quando un nuvol vada
      Sovressa sì, che ella in contro penda;
139Tal parve Anteo a me, che stava a bada
      Di vederlo chinare, e fu tal’ora
      Ch’io avrei voluto ir per altra strada:
142Ma lievemente al fondo, che divora
      Lucifero con Giuda, ci posò;1
      Nè sì chinato lì fece dimora,
145E come albero in nave si levò.2

  1. v. 143. C. M. sposoe,
  2. v. 145. C. M. E come alboro in nave si levoe.




C O M M E N T O


     Una medesma lingua ec. Questo è lo xxxi canto, nel quale l’autor pone lo suo processo dallo viii cerchio nel ix; e prima pone quel che trovò in su la ripa, ove è il discenso nel ix cerchio; nella seconda pone il modo come discesono, quivi: Facemmo adunque ec. La prima, che è la prima lezione, si divide in vii parti: però che prima dimostra con una similitudine quel, che Virgilio avea fatto in verso di lui nel precedente canto; nella seconda manifesta la via che presono, poi che si partirono della decima bolgia, che è l’ultima dell’viii cerchio, quivi: Noi demmo il dosso ec.; nella terza pone come domandò Virgilio, per dichiararsi di quel che li parea vedere, e la dichiaragione che Virgilio li fece in generale, quivi: Poco portai in là ec.; nella quarta pone la dichiaragione, che Virgilio li fa, speziale, quivi: Poi caramente ec.; nella quinta pone come, certificato da Virgilio, incominciò a comprendere da per sè medesimo, e pone sentenzie molto notabili, quivi: Et io scorgea ec.; nella sesta