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similitudine, et è la seconda, quivi: E quando la Fortuna ec.; nella terza adatta le dette istorie alla similitudine sua, quivi: Ma nè di Tebe ec.; nella quarta induce lo Aretino, nominato nell’altro canto, a manifestare quali erano quelli rabbiosi, che correano così mordendo quelli della bolgia, quivi: E l’Aretin, che rimase ec.; nella quinta pone come intese poi a riguardare li altri della detta bolgia, quivi: E poi che i due rabbiosi ec. Divisa adunque la prima lezione, è da vedere ora la sentenzia litterale la quale è questa.

Prepone l’autore una istoria della città di Tebe che fu in Grecia, dicendo così: Nel tempo che Giunone, la quale li poeti fingono essere la maggiore tralle idee e moglie di Giove, era crucciata contra li Tebani, perchè una della casa reale di Tebe, chiamata Semele era stata concubina del marito suo Giove, venne tanta insania e furore sopra li regi tebani che spesse volte feciono grandissimi mali; et avvenne a quel tempo che Atamante re de’ Tebani, essendo diventato furioso, vedendo la moglie ch’avea nome Ino, venire verso lui con due figliuoli in braccio, l’uno dall’un braccio, e l’altro dall’altro, parveli in quella furia che la moglie fosse una leonessa e figliuoli fossono leoncini, e però gridò: Tendiamo le reti sì ch’io pigli la leonessa e’ leoncini; et accostatosi a lei prese l’uno ch’avea nome Learco, e roteandolo lo percosse ad un sasso; ond’ella per dolore corse sopra uno monte che pendea sopra il mare, e gittovisi dentro con l’altro figliuolo. E poi ch’à fatto menzione di questa istoria, fa menzione di quella di Troia, dicendo che quando Troia, città posta in Asia, fu disfatta da’ Greci, la reina Ecuba, veduto morto il suo marito; lo re Priamo e li figliuoli grandi, e Polissena e Polidoro ch’era piccolo, diventò insana; cioè pazza, e cominciò ad abbaiare e mordere come cane: tanto la rivolse lo dolore. Poi adatta queste due istorie al suo proposito, per trarre quindi la similitudine, dicendo che mai non si vidono tanto crude in alcuno le furie tebane e troiane, non che a pugnere uomini; ma eziandio bestie, quanto elli vide due ombre smorte e nude, che correano mordendo quelli della decima bolgia, come corre lo porco quando escie del porcile, e giunse l’uno a Capocchio, del quale fu detto di sopra, e morselo in sul nodo del collo e trascinollo per lo fondo della bolgia, tirandoselo col morso di rietro. E quello maestro Grisolino d’Arezzo, del quale fu detto di sopra, disse a Dante rimaso con grande paura che non facesse così a lui: Quel furioso, che va così conciando altrui, è Gianni Schicchi de’ Cavalcanti. Et allora Dante li disse: Io ti priego, se l’altro di quelli due rabbiosi non ti ficchi i denti a dosso, dimmi chi è quelli. Allora colui rispose che quella era Mirra scelerata, figliuola di Cinara re di Cipri che, innamorata del padre, si contrafece sì che giacque con lui, così come si contrafece Gianni Schicchi in messer Buoso Donati, per