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34 | i n f e r n o i. | [v. 44-54] |
cando per l’ora del tempo il giudicio della ragione, che illumina la mente, come il sole il mondo; e per la dolce stagione, che è la primavera, la sua giovanezza la qual’era domevole, passata la sfrenatezza della adolescenzia.
C. I - v. 44-48. In questi due versi et uno ternario l’autore manifesta lo secondo animale, che impediva ancora lo suo ascendimento del monte, dicendo che non li venne però, per l’ora del tempo e per la dolce stagione, tanto di buona speranza che non li desse paura la vista; cioè apparenzia o vero imagine che li apparve d’un leone. E però dice: Ma non sì m’era cagione a bene sperare l’ora del tempo e la dolce stagione, che paura non mi desse; cioè a me Dante, La vista, cioè imagine; e per questo significa che li venne non veramente lo leone; ma altro intende che la lettera, d’un leone che m’apparve; cioè a me Dante al montar del monte. Et aggiugne: Questi; cioè lo leone, parea che venisse contra me Dante Con la testa alta, e con rabbiosa fame. Due condizioni li dà, di ferocità; l’altezza della testa che manifesta l’audacia del nuocere, e la rabbia della fame che dimostra la volontà del nuocere. Et aggiugne: Sì che parea che l’aer ne tremesse1. Per questo manifesta l’impeto con che venia, ch’era si ratto che l’aere si movea e venteggiava, e facea fragore sì, che parea che fuggisse dinanzi da lui per tremore, e questo si mostra per ragione naturale: chè l’aere fortemente agitato dà luogo e fa fragore, e vedesi ancora per esperienza, e questa è la sentenzia litterale. Moralmente intende l’autore per questo leone la superbia: imperò che ancora fu vessato dal vizio della superbia, poi ch’ebbe abbandonata la via de’ diletti del mondo, volendo salire su al monte delle virtù; ma non tanto quanto della lussuria, e però dice che li diè paura. Et à queste tre proprietadi; cioè l’altezza della testa, che significa l’arroganzia della superbia, e la rabbiosa fame, che significa lo spietato nocimento che fa la superbia in verso il prossimo, e l’impeto che scacciava l’aere; cioè la violenzia che scaccia li debili, che agevolmente cedono, come l’aria.
C. I - v. 49-54. In questi due ternari lo nostro autore pone il terzo impedimento ch’ebbe, quando volea salire al monte che fu piggiore che li altri: però che li altri nol feciono perdere la speranza, come questo, e non lo sospinsono a dietro, come questo. E però dice: Et una lupa ancor m’apparve, quand’io montava al monte, che mostrava carca; cioè parea caricata, di tutte brame,
- ↑ Tremesse da tremere, ridotto dalla prima alla seconda coniugazione. Un tale scambio era comunissimo ne’ princìpi di nostra lingua, nè la rima costringeva a simili configurazioni; ma l’esempio de’ Latini. La comune lezione temesse è fredda e meschina. Per la stessa ragione venesse in luogo di venisse, ridotto dalla terza alla seconda. E.