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asprezza e fatica si trova nella vita viziosa; se ben si considera quanta malagevolezza sostiene l’avaro, quanta lo goloso, lo lussurioso e così delli altri. Et appresso, quanta fatica è a conversare1 l’uno vizioso con l’altro ben lo sa chi in tal vita si truova: et è forte e malagevole a uscirne, perchè il peccato tiene fortemente legato il peccatore. Et aggiugne che tanto è cosa dura a dire ciò che pur pensando di dirlo, si rinnuova la paura; e per questo vuole che s’intenda che, quando il peccatore si ricorda del peccato, nel quale è stato ne impaurisce, pensando il periculo nel quale è stato: et aggiugne che non solamente era selvaggia, aspra e forte, come detto è; ma ancora era tanto amara che poco è più la morte. Crede l’uomo la vita mondana piena di diletti carnali essere dolce cosa, e così pare a chi non la considera col giudicio vero della ragione; ma chi la considera con l’intelletto ragionevole, vedrà in lei essere infinite amaritudini, come ammaestra Boezio nel secondo libro della detta opera, ove tra l’altre cose dice: Quam multis amaritudinibus humanae felicitatis dulcedo respersa est; quae si etiam fruenti iocunda esse videatur, tamen quo minus cum velit, abeat, retineri non possit. Et all’ultimo rende le cagioni, perchè s’indusse a narrare di questa selva, dicendo che per trattar del ben che vi ritrovò, dirà dell’altre cose che non sono bene, ch’elli v’à conosciute. Dubiterebbesi che cosa di bene può essere nella vita mondana viziosa, a che si può rispondere che è la grazia preveniente da Dio2 che fa desiderare d’uscire di tale vita: et appresso, la grazia illuminante che ci ammaestra come doviamo fare a uscirne, l’una e l’altra significata per lo pianeto, che vide sopra il monte: e la grazia cooperante, che mosse Virgilio; cioè la ragione di Dante, che di tal vita facesse uscire la sensualità. Non che voglia dire che di questo sua cagione la vita viziosa mondana; ma che da Dio sopravviene tale aiuto alcuna volta a chi è in essa, come mostra di sè; e per questo vuole inducere li altri che sono in tal vita a sperar quel medesimo, e sperando cercarlo et addomandarlo, e questo basti all’allegoria.

C. I - v. 10-21. In questi quattro ternari che contengono la seconda parte della lezione, secondo la sentenzia litterale, dimostra Dante, onde li nascesse speranza di potersi partire della selva scura, ove s’era trovato. Dice adunque così: Io non so ben ridir, com’io v’entrai; cioè nella detta selva. Tanto era pien di sonno su quel punto, Che la verace via abbandonai. E secondo questa lettera parrebbe che allora Dante dormisse, e per questo vorrebbono dire alquanti ch’elli fingesse d’avere sognato le predette cose, e quelle che si diranno in

  1. C. M. conservare.
  2. C. M. di Dio.