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   594 i n f e r n o   xxiii. [v. 58-72]

molin terragno: lo mulino terragno è quello che à la ruota piccolina sotto, come lo mulino francesco l’àe grande e da lato, et à bisogno di più acqua che il francesco, e però conviene che la sua doccia abbia maggior corso, Quand’ella; cioè l’acqua, più verso le pale approccia; cioè discende: le pale sono quelle che ricevono l’acqua e fanno volgere la ruota; et adatta la similitudine, dicendo: Come il Maestro mio; cioè Virgilio corse giuso, per quel vivagno; cioè per quella ripa: vivagno è lo canto della tela, e così le ripe sono li vivagni della bolgia, Portandosene me; Dante, sopra il suo petto, perchè io non mi facessi male allo scendere, Come suo figlio, non come compagno. E questo allegoricamente s’intende come la ragione superiore guida 1 la inferiore a considerare della sesta bolgia, lasciando la intenzione de’ dimoni: e notantemente dice sopra lo suo petto, perchè l’animo, a cui si dà l’uso della ragione, pare avere sua propia sedia nel petto. A pena fuor li suoi piè; cioè di Virgilio, giunti al letto; cioè al fondo piano, Del fondo giù; della sesta bolgia, ch’ei; cioè li demoni, giunser in sul colle; della ripa sesta, o ver bolgia, Sovresso noi; cioè sopra noi; ma non gli era sospetto; cioè paura o dubbio, et aggiugne la cagione: Chè; cioè imperò che, l’alta Providenzia; cioè di Dio, che ogni cosa à proveduto et ordinato, che lor volle; cioè quelli dimoni, Porre ministri della fossa quinta, perch’avessono a guardare che i peccatori non si cessassono da i loro tormenti, che sono posti nella quinta bolgia, Poter di partirsi indi a tutti tolle; cioè che niuno si possi partire della fossa, o bolgia ove sia posto; e per questo mostra che li ufici de’ dimoni e le loro potenzie sono tutte limitate da Dio.

C. XXIII — v. 58-72. In questi cinque ternari l’autor nostro comincia a trattar della sesta bolgia, dimostrando lo peccato che quivi si punisce e la pena ch’elli finge ordinata a tal peccato. E prima doviamo sapere che qui intende l’autore nostro trattare della ipocrisia, la quale è infingimento e simulazione di santità e di verità nelli atti di fuori2, nascondendo la nequizia e il vizio che è d’entro; et è contenuto questo peccato sotto la fraude: imperò l’ipocrita inganna li uomini, mostrandosi loro santo e buono, ov’elli è reo nel cuor dentro; e secondo li fini che si costituisce l’ipocrita, s’arreca questo peccato a diversi peccati mortali: imperò che alcuno lo fa per esserne onorato, et allora s’arreca a superbia; alcuno per guadagnar danari, et allora s’arreca ad avarizia; alcuni per esserne pasciuti, e così s’arreca alla gola; e così delli altri; e dicesi ipocrita quasi di sopra dorato, o vero falso giudizio, perchè di sè fa falsamente giudicare. E finge l’autore che l’ipocriti abbiano nell’inferno

  1. C. M. induce la
  2. C. M. di fuora co l’appiattamento d’iniquità e di vizio