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[v. 46-54] | c o m m e n t o | 571 |
do si sottomettono l’uomo. E litteralmente vuole l’autore che risponda di là in pena debita, ch’elli sieno scoiati dal detto dimonio. fa che tu li metti Gli unghioni a dosso sì che tu lo scuoi; a ciò che li risponda debita pena e pari al peccato che à usato nel mondo. E questo finge, perchè tutti li gradi precedenti inducono questo ultimo; e però finge che tutti gridano, e però dice: Gridavan tutti insieme i maladetti; cioè quelli altri dimoni. Et aggiugne come elli pregò Virgilio che sapesse chi elli era, dicendo: Et io; cioè Dante a Virgilio dissi: Maestro mio, fa, se tu puoi, Che tu sappi chi è lo sciagurato Venuto a man delli avversari suoi; cioè delli demoni detti di sopra.
C. XXII — v. 46-54. In questi tre ternari l’autor nostro finge come quel peccatore domandato da Virgilio, per suo impronto si manifesta chi elli è, dicendo: Lo Duca mio; cioè Virgilio, gli s’accostò al lato; a quello sciagurato, Domandollo; Virgilio, onde fosse, e quei; cioè l’addomandato, rispuose: Io fui del regno di Navarra nato; e però è qui da sapere che Dante finge che costui fosse uno ch’ebbe nome Giampolo, e fu figliuolo d’una gentil donna di Navarra e d’un padre che fu cattivo uomo, Distruggitor di sè, e di sue cose. Questo suo padre, come dice lo testo, fu uno ribaldo e per le sue ribalderie fu morto, e però dice lo testo: Distruggitor di sè; et innanzi che morisse ribaldeggiò e destrusse il suo, e però disse: e di sue cose; onde morto il padre, la madre per necessità, ch’era venuto meno la roba per lo cattivo padre, quando fu grandicello lo pose per servo d’uno barone del re Tebaldo ch’era re di Navarra. Et in processo di tempo costui cresciuto divenne famiglio del re, e seppe sì fare che tutti i fatti del re andavano per sue mani e tutta la corte: imperò ch’elli fu saputo uomo, secondo il mondo. E quando fu venuto in questa grandezza, elli si diede a far baratteria, vendendo le grazie e li offici et ogni cosa che poteva; e però lo pone condannato in questo luogo, e però dice: Mia madre a servo d’un signor mi pose; ecco la cagione: Chè m’avea generato d’un ribaldo: ribaldo tanto è a dire, quanto rio baldo; cioè ardito, rio uomo, e non si dee intendere però che fosse nato, se non legittimamente: però che delle grandi donne alcuna volta si maritano ai tristi uomini. Distruggitor di sè, e di sue cose; ecco che appruova che fosse ribaldo, che tenne tal vita che fu cagione della destruzione della persona sua e delle sue facultà. Poi; cioè poi ch’ io fui servo di quel signore, fui famiglio del buon re Tebaldo; che fu buono, secondo la fama che di lui è ancora: imperò che intra l’altre virtù ch’ ebbe, fu onestissimo, intanto che mai non dormì con la sua reina, se non vestito, sì che mai non vide le parti disoneste l’uno dell’altro: o puossi intendere che fosse buono non solamente a sè nella sua onestà: ma