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c a n t o   xviii. 471

103Quindi sentimmo gente, che sì nicchia1
      Nell’altra bolgia, che col muso sbuffa,
      E sè medesma con le palme picchia.2
106Le ripe eran gromate d’una muffa,3
      Per l’alito di giù, che vi si appasta,
      Che con li occhi e col naso facea zuffa.
109Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
      L’occhio a veder, senza montare al dosso
      Dell’arco, ove lo scoglio più soprasta.
112Quivi venimmo, e quindi giù nel fosso
      Vidi gente attuffata in uno sterco,
      Che dalli uman privadi parea mosso.4
115E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
      Vidi un col capo sì di merda lordo,
      Che non parea s’era laico o cherco.
118Quei mi sgridò: Perchè se’ tu sì gordo5
      Di riguardar più me, che li altri brutti?
      Et io a lui: Perchè, se ben ricordo,
121Già t’ò veduto coi capelli asciutti,
      E se’ Alesso Interminei da Lucca;6
      Però t’adocchio più che li altri tutti.
124Et elli allor, battendosi la zucca:
      Qua giù m’ànno sommerso le lusinghe,
      Ond’io non ebbi mai la lingua stucca.
127Appresso ciò lo Duca: Fa che pinghe,
      Mi disse, il viso un poco più avante,
      Sì che con li occhi ben la faccia attinghe7

  1. v. 103. C. M. Quivi
  2. v. 105. C. M. medesmo
  3. v. 106. Gromate, da groma o gruma. E.
  4. v. 114. Privadi; privati, secondo il facile scambio del t in d per eufonia. Così imperadore, codesto, in vece d’imperatore, cotesto ec. E.
  5. v. 118. C. M. sì ingordo
  6. v. 122. C. M. Allessio
  7. v. 129. C. M. Sì che la faccia ben con li occhi attinghe