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[v. 43-54] | c o m m e n t o | 407 |
al lato, E poi rigiugnerò la mia masnada; cioè la mia brigata, Che va piangendo i suoi eterni danni; cioè le sue pene, che durano in eterno.
C. XV — v. 43-54. In questi quattro ternari l’autor finge che ser Brunetto lo domandasse di due cose, e com’eili a ciò rispose; ma prima pone lo modo che tenea ad andare con ser Brunetto, dicendo: Io; cioè Dante, non osava scender della strada; cioè d’in sul margine in sul quale io era: imperò che io mi sarei abbruciato per l’arsura, Per andar par di lui; cioè di ser Brunetto, ch’era conveniente che li facesse reverenzia. E questo si può esponere moralmente, ch’elli non osava scendere della fermezza e costanzia a che l’avea menato la ragione, per essere pari di ser Brunetto in sì fatto vizio; e per questo vuol dimostrare che, benchè avesse conversazione con lui in questa vita, sempre la conversazion sua fu onesta. ma il capo chino Tenea; Io Dante, com’uom che reverente vada; facevali reverenzia, come a suo maestro. E qui è notabile che l’uomo vizioso in alcuno peccato puote avere virtù in sè, per la quale merita onore e reverenzia; e così mostra l’autore che facesse a ser Brunetto nella vita presente onorando la virtù ch’era in lui, lasciando il vizio; et accordasi con la esposizione fatta di sopra. El; cioè ser Brunetto, cominciò: Qual fortuna o destino; cioè qual felicità de’ corpi celesti o ver qual grazia della providenzia di Dio: imperò che ser Brunetto fu astrologo, come apparirà di sotto. Finge che domandasse di queste due cose qual fosse l’una; cioè, o fortuna, o destino; e della prima finge che domandi, per satisfare all’opinione che comunemente tengono li astrologi; della seconda, per satisfare alla fede catolica che tiene che li uomini sieno predestinati, o presciti da Dio, sì che l’una pose per sè ch’era astrologo, e l’altra per Dante ch’era catolico. Et è qui da notare che fortuna è l’evenimcnto 1 delle cose provedute da Dio, lo quale evenimento è cagionato dalle influenzie de’ corpi celesti che sono cagioni seconde, e della prudenzia di Dio, come da cagione prima sì, che intendendo come si dee, non è fortuna sanza destino; ma destino è ben sanza fortuna, inanzi che le cose abbino effetto. E di questa fortuna è stato detto per l’autore, di sopra assai sofficientemente: imperò che tale cammino non si potea 2 fare sanza guida e dimostratore. Dante è domandato da ser Brunetto chi è la sua guida: imperò che, benchè dicesse di sopra: Faròl, se piace a costui, che vo seco; si potea intendere ch’andasse come compagno, non come maestro. Anzi l’ultimo di’; cioè innanzi la morte, qua giù ti mena; cioè, qua giù nell’inferno, che non potrebb’essere, sanza speciale grazia di Dio? E chi è quei che’ ti mostra il cammino? Do-