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266 | i n f e r n o ix. | [v. 106-123] |
alla persona. A che si può rispondere, che lo intendimento della fizione è vero, e sotto questo modo si può convenire all’angelo. E non sanza cagione finse l’autore che l’angelo dicesse questo, per mostrare ai lettori che ogni setta tenga questa sentenzia che l’infernali non possano ostare alla volontà divina; e però pone la prima sentenzia generale che è de’ cristiani e de’ catolici; appresso soggiugne quella de’ poeti che è da pagani. Poi si rivolse; l’angelo, per la strada lorda; cioè sopra la palude, onde era venuto, E non fe molto a noi; cioè a me Dante, nè a Virgilio; ma fe sembiante; cioè similitudine e vista, D’uomo, cui altra cura stringa e morda; cioè solliciti, Che quella di colui che li è davante. Non sanza cagione finge questo l’autore; cioè che finge per mostrare che l’angelo, che s’interpetra messo di Dio, intentemente 1 faccia lo suo officio e ch’elli opera, secondo che gli è commesso da Dio, e non per respetto di alcuna persona. E noi; cioè io Dante e Virgilio, movemmo i piedi; nostri, in ver la terra; cioè di Dite, Sicuri; sanza alcuna dubitanza, appresso le parole sante; cioè dopo le parole dette dall’angelo, che furon sante. E qui si dimostra che l'uomo per lo conforto dell’angelo diventa sicuro e che la presenzia dell’angelo dà sicurtà, come la presenzia del demonio dà paura; e qui non è altra allegoria: però che questa è continuazion della lettera et è finto, secondo la sua fizione poetica.
C. IX — v. 106-123. In questi sei ternari finge l’autore come entrarono nella città di Dite, e manifesta quel che prima vi vide, dicendo così: Dentro v’entramo; cioè io Dante e Virgilio, sanza alcuna guerra; cioè sanza alcuna contradizion di demoni e noia; Et io ch’avea di riguardar disio; cioè io Dante, ch’avea desiderio di vedere, La condizion, che tal fortezza serra; cioè che condizione è quella di coloro che sono 2 inchiusi dentro a quella città, Com'io fui dentro; a quella città, l’occhio intorno invio; cioè ragguardo intorno, E veggio ad ogni man; cioè a destra et a sinistra, grande campagna; cioè gran pianura, Piena di duolo e di tormento rio. Ecco ciò che prima finge avervi veduto intorno alle mura dentro della città di Dite, ove è reina Proserpina che significa la superbia, che à per figliuola la invidia; onde dice santo Agostino: Tolle matrem, filid peribit; e però pone qui le torri che significano iattanzia et arroganzia, e l’altre figliuole compagne della superbia, e le furie che significano la malizia, e Medusa o ver Gorgon, che significa bestialità. E pone a questa città le mura del ferro che significano ostinazione, come detto è di sopra; e però dice l’autore