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c a n t o   viii. 225

106Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso
     Conforta e ciba di speranza bona,
     Ch’io non ti lascerò nel mondo basso.
109Così sen va, e quivi m’abbandona
     Lo dolce Padre, et io rimango in forse:1
     Che il no, e il sì nel capo mi tenciona.2
112Udir non potei quel ch’ a lor si porse;
     Ma el non stette là con essi guari,
     Che ciascun dentro a pruova si ricorse.
115Chiuser le porti quei nostri avversari
     Nel petto al mio Signor, che fuor rimase:
     Ei si rivolse a me con passi rari.3
118Li occhi alla terra, e le ciglia avea rase
     D’ogni baldanza, e dicea nei sospiri:4
     Chi m’à negate le dolenti case?
121Et a me disse: Tu, perch’io m’adiri,
     Non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
     Qual ch’alla difension dentro s’aggiri.
124Questa lor tracotanza non è nova,
     Che già l’usaro a men secreta porta,
     La qual sanza serrame ancor si trova.
127Sopr'essa vedestù la scritta morta:5
     E già di qua da lei discende l’erta,
     Passando per li cerchi sanza scorta
130Tal, che per lui ne fia la porta aperta.

  1. v. 110. C. M. rimasi in forse:
  2. v. 111. tenciona. Per l’amistà, che ànno tra loro il c e la z, facilmente si scambiano. Quindi si usa ospicio, officio, mercè, per ospizio, offizio, merzè e via dicendo. E.
  3. v. 117. E rivolsesi
  4. v. 119. C. M. D’ogni baldezza,
  5. v. 127. Vedestù; vedesti tu, incorporato il nome personale e sottratte alcune lettere, al modo che i Latini dicevano viden per videsne ed altrettali. E.
Inf. T. I. 15