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142 | i n f e r n o iv. | [v. 145-151] |
il processo, quivi: La sesta compagnia. E scusasi prima l'autore dicendo, ch'assai ve n'erano più, che non n'à raccontati di valenti uomini in armi, et in iscienzie; ma elli non può a pieno dire di tutti, e però dice: Io non posso ritrar di tutti; cioè io non posso scrivere di tutti quelli che v'erano, appieno; cioè sofficientemente, Però che sì mi caccia; cioè mi costrigne, il lungo tema; cioè la lunga materia, Che molte volte al fatto il dir vien meno; cioè che le parole non bastano alla narrazione del fatto, mancando spesse volte, secondo forse il parere delli uomini comuni, che non ànno l'ingegni acuti ad intenderle; ma secondo l'intelligenti, assai sufficientemente à detto d'ogni cosa; ma questo duce per sua umilità, et escusazione a coloro a' quali non satisfacesse. Dice poi, et è la seconda parte: La sesta compagnia; cioè la compagnia de' sei, perchè sei erano li poeti di sopra nominati, et accompagnati insieme; cioè Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano e Dante. in due si scema; cioè si manca in due; in Virgilio e Dante: imperò che li altri quattro si rimasono nel castello con li altri uomini savi. Per altra via mi mena il savio Duca; cioè Virgilio mi mena per la via che esce fuori del castello, quivi ove erano li savi scientifici, e li forti armigeri. Fuor della queta; s'intende aura ch'era nel castello predetto. nell'aura che trema; cioè nell'aura dell'inferno, ove è sempre tremore et agitazione. E vengo; io Dante, in parte; cioè dell'inferno, ove non è che luca; cioè risplenda, come era nel castello: chè v'era sempre fuoco, che risplendeva, come fu detto di sopra. E questo non abbisogna d'allegoria, e qui finisce il quarto canto.