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88 | i n f e r n o iii. | [v. 34-42] |
dolorose, parole irose, diversità di lingue, orribilità di parlari, e percussioni di mani: imperò che è conveniente cosa che in quella miseria che sono vivuti di qua, sieno ancora di là. E questi nove segni si convengono ancora alli uomini vecordi, de’ quali allegoricamente intende il nostro autore di trattare in questa prima lezione, et in loro si truovano, e per questi segni si possono conoscere; sicchè questo è fizione poetica dell’autore a dimostrare la condizione di sì fatti uomini essere vilissima, in quanto non sieno da essere posti nè tra buoni, nè tra rei, onde la lor vita si può dire morte. Questi così fatti tutto il tempo consumano in sospiri e pianti, che significano la tristizia del cuore; in guai alti e fiochi che significano lo scialo della impazienza delle passioni; in parole dolorose, et irose contra a sè medesimo, e contra altrui; in diversità di lingue: però che non stanno fermi in uno proposito nè in uno dire; in orribilità di parlare: imperò che sè medesimi da ogni opera spauriscono; in percussioni di mano, in quanto l’una opera impaccia l’altra, sicchè nulla fanno, dovendo fare la buona opera rimangonsene, sopravvenendo il pensiero della ria, e volendo cominciare la ria non si sanno deliberare, e così l’una mano ripercuote l’altra che nulla fanno. All’ultimo finge che la sensualità dimandi la ragione, in quanto dice ch’elli dimandò Virgilio che era quello che udiva, e quale era quella gente: imperò che di questi così fatti non si può avere conoscimento sensibile, o se sono buoni, o se sono rei; se non che la ragione pratica determina che non sono nè buoni, nè rei.
C. III - v. 34-42. In questi tre ternari l’autore pone la risposta che li fece Virgilio alla sua dimanda, dicendo: Et elli; cioè Virgilio disse, s’intende, a me; cioè Dante, Questo misero modo: però che i modi sono di persona posta in miseria, Tengon l’anime triste di coloro, Che visser sanza fama e sanza lodo; in questa vita s’intende, et è fama nome così di buone cose, come di rie; ma qui piglia l’autore più per lo nome delle cose ree, come recita Virgilio nel quarto, quando dice: Fama malum, qua non aliud velocius ullum, Mobilitate viget ec.: imperò che dice poi, e sanza lodo. È lodo virtù propriamente; ma qui si pone per lo lodamento che è diceria di colui che loda la virtù, sicchè l’uno; cioè la fama, pone l’autore in male, e l’altro; cioè lo lodo, puose in bene. Mischiate sono a quel cattivo coro; cioè questi tristi de’ quali è detto sono mischiati a quella compagnia, Delli angeli, che non furon rebelli, Nè fur fedeli a Dio; ma per sè fuoro. Qui pone l’autore una sua fizione poetica, che pare consonante alla ragione pratica, che ultra alli angeli che si levarono con Lucifero contra Dio, fossono di quelli che stessono in quel mezzo, che non fossono nè con Dio, nè con Lucifero; e questi così fatti sieno posti in questa prima parte dell’inferno ove non è