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del vento, e questo procedea da orribili linguaggi, e diverse lingue, e parole dolorose, con profferimenti d’ira, da voci alte e fioche, e suoni di mani; per la qual cosa io Dante domandai Virgilio che era quello ch’io udiva, e quale era quella gente che parea sì vinta nel dolore. Allora Virgilio mi rispose, che questo modo misero teneano l’anime triste di coloro, che vivettono nel mondo sanza fama e loda, e sono mescolate alla compagnia delli angeli cattivi che non furono però rebelli a Dio, nè ancora furono con Dio; ma stettono per sè nella discordia che mosse il lucifero dopo la creazione loro, contro a Dio, e non possono stare nelli cieli, che se ne assozzerebbono d’essi; nè non sono nel profondo dell’inferno: però che alcuna gloria avrebbono i dannati di loro. Oltra questo io Dante addimandai ancora Virgilio, e dissi: Maestro, che è loro tanto greve, che li fa lamentare sì forte? Rispose Virgilio: Io tel dirò in brieve. Questi non ànno speranza di morte, e la lor cieca vita è tanto bassa che sono invidiosi d’ogni altra sorte. Il mondo non lascia essere fama di loro: misericordia e giustizia li rifiuta. Non ragionare più di loro; ma guarda quel che vedi e passa. Et io Dante, ragguardando vidi una insegna che correa in giro, come in giro era il luogo dove eravamo, tanto ratta che non parea che mai si dovesse posare, e dietro ad esse veniva una lunga traccia di tanta gente, ch’io non avrei mai creduto che tanta ne fosse morta, della quale alcuno conobbi, e massimamente colui che fece per viltà lo grande rifiuto. Incontanente io intesi che questa era la setta de’ cattivi spiacenti a Dio, et a’ suoi nimici, et erano questi sciagurati, che mai non si può dire che fossono vivi, ignudi e stimolati da mosconi, e da vespe ch’erano quivi, e da lor volto cadea sangue mischiato con lagrime, ch’era ricolto giù da’ lor piedi da vermini fastidiosi. E qui finisce la sentenzia litterale della prima lezione, ora è da vedere il testo con le moralità ovvero allegorie.
C. III - v. 1-12. In questi primi quattro ternari il nostro autore finge che menato da Virgilio elli giunse ad una porta, sopra la quale era scritto queste parole, nelle quali s’induce a parlare la porta, e fa l’autore due cose: chè prima pone la scritta che vide; nella seconda narra come la vide e come impaurito di ciò, ricorse a Virgilio, quivi: Queste parole ec. Dice adunque prima che la scritta parlando della porta, diceva: Per me; cioè per me porta, si va nella città dolente; cioè nell’inferno che è pieno di dolore. Non che propriamente si chiami città; ma abusivamente: imperò che quivi non è concordia di cittadini; ma quivi è continua discordia: imperò che v’è sommo odio; come in vita eterna è perfetta carità. Per me; cioè per me porta, si va nell’eterno dolore; cioè nel dolore che non dee mai aver fine, e ponsi qui eterno per perpetuo: imperò che eterno pro-