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SONETTO LXVI
Che nè Morte, nè Tempo avaro ammorza,
Onde s’accese, amò di tanta forza
Il mio cor, quant’ha poi mostro sovente. 4
Ascolto sempre, veggio ognor presente,
Che non me ’l vieta la terrena scorza,
La quale spesso di poter ne sforza
A sciorre, e alzar sopra di lei la mente, 8
Celesti luci, ed armonia soave,
Che col chiaro splendore, e dolce suono,
Gli occhi e l’orecchie m’han velati e chiuse. 11
L’esser meco talor non ti fia grave,
Spirto beato, che quì in terra sono,
U’ son le glorie tue larghe e diffuse. 14
——
SONETTO LXVII
Il Sol, che seco in Ciel mi ricongiunge;
Ma viene ognor più lieto, e sempre aggiunge
Al maggior uopo, ond’io pur vivo ed ardo. 4
Quant’egli può, dal primo acuto dardo
Risana il cor, e con più saldo il punge,
Ora che col pensier fido da lunge
A quel, ch’esser solea, felice il guardo. 8
Gli occhi, che Morte mi nasconde e cela,
Ond’uscì ’l foco, ch’ancor l’alma accende,
Fur chiari specchi in terra al viver mio. 11
Or quel raggio, che ’l Ciel non mi contende,
Mi mostra, ove drizzar convien la vela
Per questo mar del nostro secol rio. 14