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SONETTO XXXII.


A
che sempre chiamar la sorda Morte?

   E far pietoso il ciel col pianger mio,
   Se vincer meco stessa il gran desio
   Sarà un por fine al duol per vie più corte? 4
A che girne all’altrui sì chiuse porte?
   Se ’n me con aprirne una al proprio oblio,
   E chiuder l’altra al mio voler, poss’io
   Spregiar l’avversa stella, e l’empia sorte? 8
Quante difese, quante vie discopre
   L’anima, per uscir del carcer cieco,
   Di sì grave dolor tentate in vano. 11
Riman solo a provar, se vive meco
   Tanta ragion, ch’io volga questo insano
   Desir fuor di speranza a miglior opre. 14


SONETTO XXXIII.


R
iman la gloria tua larga e infinita,

   Signor; se fur del viver corte l’ore,
   Tal virtù diè la fama al tuo vigore
   Ch’uno si spense, e l’altra fu nodrita. 4
A mezzo il giusto corso era la vita,
   Quando al fin glorioso dell’onore
   L’animo giunse, per lo cui valore
   Non fu dal tempo la virtù impedita. 8
Scarco de’ nostri mali all’altra meta
   Leggier volasti sì, che nulla cura
   Ti strinse qui dell’onorata spoglia. 11
Questo il mio duol ristringe, e fa che lieta
   Chiami la Morte: dolce, alta ventura,
   E felice gioir, l’interna doglia. 14