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SONETTO CLXIV


Oh quanto il nostro infermo lume appanna
   La nebbia rea delle speranze insane!
   Non ebbe mai, mentre durò ’l suo pane,
   La gente ebrea dal Ciel divina manna;
Il simil, mentre l’uom si strugge e affanna
   In cercar le ricchezze e glorie umane,
   Fermando l’occhio in queste luci vane,
   Col suo proprio desir se stesso inganna.
Convien, qual peregrin sciolto e leggiero,
   Gir con l’opre amorose e con la mente
   Fidele e salda al glorioso albergo;
Allor luce verrà che non consente
   A cui la scorge unqua volgersi a tergo,
   Ma andar innanzi ov’è giunto il pensiero.


SONETTO CLXV


Quand’io riguardo il mio si grave errore,
   Confusa, al Padre eterno il volto indegno
   Non ergo allor, ma a Te, che sovra il legno
   Per noi moristi, volgo il fidel core.
Scudo delle Tue piaghe e del Tuo amore
   Mi fo contra l’antico e novo sdegno;
   Tu sei mio vero prezioso pegno
   Che volgi in speme e gioia ansia e timore.
Per noi su l’ore extreme umil pregasti,
   Dicendo: «Io voglio, o Padre, unito in Cielo
   Chi crede in me», si ch’or l’alma non teme;
Crede ella, e scorge, Tua mercé, quel zelo
   Del qual ardesti, si che consumasti
   Te stesso in croce e le mie colpe insieme.