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SONETTO XLIII
S’io guardo al mio Signor, la cui grandezza
Non cape il primo Suo più largo cielo,
Qui in terra chiuso in picciol mortai velo
Per far capace noi di tanta altezza,
Il mondo, i suoi tesori, e la vaghezza
Ch’ei scopre agli occhi nostri al caldo e al gelo,
Quant’ho più lume ognor, cangiando ’l pelo,
Più il mio cor, Sua mercé, l’odia e disprezza
Oh come brieve par quel che circonda
Apollo a l’alma che già illustra e scalda
Il vero Sol con luci alme e divine!
Quanto contiene in sé l’alta e rotonda
Palla celeste con la mente salda
Ella usa sol per mezzo al suo bel fine.
SONETTO XLIV
Spero che mandi ornai quel saggio eterno
Signor, vèr noi sol per pietade irato,
Il santo fulgor Suo dal Ciel turbato
In questo cieco lacrimoso verno,
E percota la pietra u’ per governo
Del mondo ha ’l sacro Suo tempio fondato,
E sparga poi d’intorno in ciascun lato
Fiamme divine il Suo bel foco interno;
E dal gran colpo quei che non ben saldi
Su vi s’appoggian forse alor cadranno
Nel mar de’ lor desii freddo ed oscuro;
E gli altri, che vi son già fermi e caldi
Del vivo ardor che non consuma, aranno
Modo d’arder più chiaro e più sicuro.