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SONETTO CXII
Veggio al mio danno acceso e largo il Cielo,
E al mio giusto desio sdegnoso e parco,
E del gran mal, c’ ho sempre il petto carco,
Mostro la minor parte, e l’ altre celo.
Nè spero omai, ch’ al variar del pelo,
Girando il dì, ch’ a mio mal grado varco,
Cangi l’ alma lo stile, o ’l grave incarco,
Men nojoso sopporti il mortal velo.
Beata lei, che con un fuoco estinse
L’ altro più interno, e dall’ ardita Morte
Fu ’l martir lungo in sì brev’ ora spento.
Ma timor dell’ eterne fè più corte
Le pene sue; lo mio furor distrinse
Maggior paura, e non minor tormento.
SONETTO CXIII
Nella dolce stagion non s’ incolora
Di tanti fior, ovver frondi novelle
La terra, nè sparir fa tante stelle
Nel più sereno Ciel la vaga Aurora;
Con quanti alti pensier s’ erge ed onora
L’ anima accesa, ricca ancor di quelle
Grazie del lume mio, ch’ altiere e belle
Mostra ardente memoria d’ ora in ora.
Tal potess’ io ritrarle in queste carte,
Qual impresse l’ ho in cor, che mille amanti
Infiammerei di casti fuochi eterni.
Ma chi potria narrar l’ alme cosparte
Luci del mortal velo, e quelli interni
Raggi della virtù sì vivi e santi?