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narsela senza averla veduta coi propri occhi. Basti dire che l’allegrezza dei quattro fratelli, nel rivedere il loro fratellino minore, che oramai credevano perduto per sempre, fu così tempestosa e smodata, che gli saltarono addosso tutti insieme, e ci corse poco che non lo soffocassero sotto un diluvio di baci, di abbracciamenti e di carezze.
Quand’ebbero sfogati gli affetti del loro cuore, cominciarono a strillare in coro: curacà! curacà! curacà! (nel dialetto famigliare delle scimmie, bisogna sapere che curacà vuol dire: a cena! a cena! a cena!) Detto fatto, si posero seduti per terra intorno a una gran cesta di pèsche, di albicocche e di fichi d’India, e lì, ridendo, grattandosi e facendo con la bocca mille smorfie e mille versacci in segno di grande esultanza, mangiarono a più non posso, come se fossero digiuni da due settimane.
E non solo mangiarono, ma bevvero allegramente: e bevvero un certo liquore spiritoso, fatto d’uva rossa strizzata, che somigliava come due gocciole d’acqua al nostro vino. E ne bevvero così a spugna, che dopo mezz’ora dormivano tutti e russavano come tante marmotte.
Quand’ecco che sul più bello del sonno furono svegliati da un’orribile voce che gridò: «Guai a chi si muove!...»
VIII.
Il terribile assassino Golasecca e i suoi compagni.
Golasecca si mette in tasca il povero Pipì e lo porta via.
Lascio ora pensare a voi come rimanessero, quando, balzando in piedi e spalancando gli occhi, si videro circondati da una masnada di brutti figuri, neri come l’inchiostro e tutti armati di sciabole e di bastoni.