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a quelli che più lo tafanavano e si pigliavano gioco di lui, e disse loro a muso duro:
— Badate, ragazzi: io non son venuto qui per essere il vostro buffone. Io rispetto gli altri e voglio essere rispettato.
— Bravo Berlicche! Hai parlato come un libro stampato! — urlarono quei monelli, buttandosi via dalle matte risate: e uno di loro, più impertinente degli altri, allungò la mano coll’idea di prendere il burattino per la punta del naso.
Ma non fece a tempo: perchè Pinocchio stese la gamba sotto la tavola e gli consegnò una pedata negli stinchi.
— Ohi! che piedi duri! — urlò il ragazzo stropicciandosi il livido che gli aveva fatto il burattino.
— E che gomiti!... anche più duri dei piedi! — disse un altro che, per i suoi scherzi sguaiati, s’era beccata una gomitata nello stomaco.
Fatto sta che dopo quel calcio e quella gomitata, Pinocchio acquistò subito la stima e la simpatia di tutti i ragazzi di scuola: e tutti gli facevano mille carezze e tutti gli volevano un ben dell’anima.
E anche il maestro se ne lodava, perchè lo vedeva attento, studioso, intelligente, sempre il primo a entrare nella scuola, sempre l’ultimo a rizzarsi in piedi, a scuola finita.
Il solo difetto che avesse era quello di bazzicare troppi compagni; e fra questi c’erano molti monelli conosciutissimi per la loro poco voglia di studiare e di farsi onore.
Il maestro lo avvertiva tutti i giorni, e anche la buona Fata non mancava di dirgli e di ripetergli più volte: