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Iuda.   Padre, convien che ’l vero ancor io parli.

Fiera presa nel laccio, o al visco uccello,
quanto piú tira e sforza per schivarli,
     piú si stringe et intrica e invischia anch’ello:
cosí chi piú si dòl, piú ancor s’offende,
né il mal si leva, e intricasi il cervello.
Iacob.   Questa similitudine si intende
in quello, o Iuda, che con la natura
contender véle, e il vero non comprende.
     Io non ribello a quel che ’l ciel procura:
ma, Dio laudando, l’animo nutrico
di questo pianto, che mi è dolce cura.
Isachar.   Comprendo che anch’io’ndarno m’affatico
di confortarti, o padre, pur dirò:
non prender il parlar mio per oblico.
     Se pur per te quietarti non ti vo’,
almen per noi conserva la tua vita,
che a noi bisogna: e fa’ come tu po’.
Iacob.   Isachar, Isachar, si ben fornita
è l’etá vostra d’anni e di virtute,
che far potete ormai senza mia aita.
     A quello era bisogno mia salute,
che per la etade tenera e novella
non avea ancor le forze sue compiute!
     Zábulon. Io dirò una sentenza antica e bella.
Padre mio car, non par che si convegna
cosí dolersi a un uom che in virtú eccella;
     ché non par la mestizia cosa degna
d’un magnanimo cor. Però direi
che la lassasti come cosa indegna.
Iacob.   Ti escuso, Zábulon, perché tu sei
giovine ancora e in questo poco esperto:
giá non son come i toi li pensier mei.
     Io vivo inanzi a Dio, chiaro et aperto:
in magnanimitá, laude terrena,
(s’io non offendo Dio) biasmo non merto.