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456 | ciceruacchio e don pirlone |
botteghe, niuna eccettuatane, perfettamente chiuse, e l’aspetto di quei pochi cittadini, che mostravansi in qualche balcone, mal celava l’odio internamente represso.
Ad onta di questi sintomi, la truppa fu lasciata vagare per la città e gli ufficiali inviati agli alloggi che il municipio aveva assegnato, senza che venisse data alcuna disposizione per prevenire quei disordini, che preveder si potevano, sul modo di ripararci nati che fossero. Unica disposizione impartita ai diversi corpi da chi comandava superiormente ed aveva la responsabilità di quanto potesse accadere di sinistro alla truppa per parte dei cittadini, o a questi per parte di quella, fu che all’Ave Maria un ufficiale per ogni corpo si trovasse sulla piazza principale, per ricevere e trasmettere al proprio comandante gli ordini per la nott6 e pel dì seguente, che ivi avrebbe loro recato il facente funzione di capo di stato maggiore, che 1 miei lettori ricorderanno avere accennato altrove chi fosse.
Non so, se per mio turno o per scelta, anche questa volta fui ordinato pel battaglione di cui faceva parte, di trovarmi all’ora indicata sulla gran piazza dì Forlì, ove mi recai una mezz’ora prima di quella prefissa, per non sapere cosa &rmi di meglio. Ero in un caffè da poco più di un quarto, quando improvvisamente odesi ripetere il grido dell’allarme e contemporaneamente esplodere vari colpi di fucile. Accorro fuori e mi dirigo dove era stabilita la gran guardia, nel mentre il tafferuglio ingrandisce, e odesi ad ogni lato della città spesseggiare i tiri dell’armi da fuoco, e cittadini e soldati correre impazzatamente per le vie, chi per trovare uno scampo, altri per esercitare atti d’ostilità e di vendetta sotto chiunque cadevagli fra mani. Ebbi la fortuna di salvare la vita a due cittadini di cui uno seppi chiamarsi certo signor conte Fabio Fabi, l’altro, di cui ignorai il nome, seppi essere un impiegato municipale dei dazi alle porte, i quali erano inseguiti da furenti soldati colla baionetta alle reni, parandomi dinanzi a questi per coprirli e gridando e minacciando, con quanta forza mi avessi, perchè dovessero risparmiarli, operandone l’arresto e rimettendoli all’autorità competente. Non senza fatica vi riuscii.
È mio credere che conseguenza di quel fatto, in cui perirono e rimasero feriti parecchi cittadini, fosse la partenza dell’ufficiale austriaco che accompagnava il colonnello, che seguiva le nostre truppe, alla volta di Milano, e la fermata di queste in quella città per quattro giorni. Allo spirare di detto tempo, e lasciato altro presidio a Forlì, le truppe papali proseguirono la marcia verso Bologna, avendo incontrato in Imola l’avanguardia delle truppe austriache, che, col mezzo dell’accennato ufficiale, erano state chiamate. Due giorni dopo la partenza da Forlì si giunse a Bologna, ove fatti fermare ad un campo, alla distanza di tre miglia da porta Maggiore, vedemmo passare una colonna di fanteria austriaca, che avendo girato la città si diresse a detta porta. Un’ora stante da quel passaggio fummo messi sotto le armi od in marcia e condotti entro Bologna, nel mentre tutte le piazze di quella popolosa città erano occupate da corpi austriaci, in atto di proteggere quel nostro ingresso.