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capitolo settimo 391

poi dal Papa; ma trovarono questo irremovibile. «Come italiano, loro disse, vagheggio la prosperità della nazione e ne veggo il miglior fondamento nella sica indipendenza e nella confederazione de’ suoi Stati. Ma come capo della Chiesa e in corrispondenza di quei principii di pace da me proclamati negli esordii del mio pontificato, né debbo, nè posso dichiarar guerra a una potenza, che non me ne ha dato cagione. Tuttavia, a calmare l’effervescenza degli animi, cagionata dalla sinistra interpretazione che gli agitatori hanno voluto dare alle cose da me dette al Sacro Collegio, farò qualche pubblico atto. Ove esso non sia tenuto per bastevole, sono apparecchiato a tutto, né mi spaventa cosa alcuna che sia per conseguitare al mio principato temporale, alla mia vita, a quella dei Cardinali, La mia coscienza mi impone imperiosamente di sacrificar tutto al rimorso di aver potuto dar cagione alla Germania di quello scisma, del quale è minacciata al presente»1.

E il Papa, dal suo punto di vista, aveva ragione: quelli che avevano torto erano tutti quei Ministri, quegli ambasciatori, quegli agitatori, quella moltitudine che volevano assolutamente costringere il Papa ad essere italiano, mentre egli era e doveva restare cattolico, che volevano far tornare il Papa e tornare essi stessi a dibattersi fra le punte aguzze e gli equivoci della contraddizione, donde Pio IX, risolutamente, con l’Allocuzione del giorno innanzi, aveva voluto uscire ed era uscito: erano essi, i patrioti italiani che avevano torto, essi che, spinti dal l’ardente amore della causa nazionale, di cui avrebbero voluto ad ogni costo assicurare il. trionfo, si ostinavano a volere alleato alla grande impresa il Pontefice.

E dico che ebbero torto, volendo io, per farmi intendere, pronunciare, per un momento, giudizio subiettivo di postero sapiente della scienza del poi; perchò, obiettivamente considerando gli avvenimenti nel tempo e nello spazio in cui accaddero, non potrei e non dovrei dire che ebbero torto; avvegnaché io sia convinto che ai padri nostri, a quei di, dovesse sorridere, naturalmente, la speranza di ritrarre ancora a favorire la causa

  1. Dispaccio Bargagli al ministro degli affari esteri in Firenze, in data di Roma 29 aprile in N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea, ecc., vol. V, cap. III, § 40.