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62 | capitolo iii. |
piane, e riesce impacciato e affettato. Qualche anno più tardi disse egli stesso che quel preambolo era scritto in uno stile infernale e al tutto da fanciullo.1 Anche il Discorso sulla Titanomachia d’Esiodo non manca di qualche affettazione; e in generale ne sono macchiati quasi tutti, quale più quale meno, gli scritti di prosa di quei due anni.
Ma quel bagno di purismo non fu inutile per lo scrittore ; e il forte ingegno di lui seppe liberarsi ben presto di quel po’ di scoria pedantesca che gli studi di lingua lasciarono su gli scritti suoi di quel tempo. L’istinto suo lo portava alla semplicità nell’arte, e quell’istinto non tardò ad avvertirlo quando e come ne deviava. Nella traduzione dei frammenti di Fron- tone e di Dionigi egli mise un intendimento artistico, non meno che nelle traduzioni poetiche da Mosco, da Omero, da Virgilio. E quando ebbe finito il Dionigi, nella traduzione del quale volle, come il Davanzati con Tacito, gareggiare di brevità, con l’autore, ne rimase così contento, che scrivendone allo Stella, al quale ne offrì la stampa, gli diceva: «Se mi è lecito parlare della mia traduzione, le dirò che la ho fatta con tutto il possibile studio, non avanzando una parola senza averla maturamente ponderata, e con tutta la cognizione delle due lingue, di cui io sono capace. Credo che poco di meglio possa uscire dalla mia penna, e a me paro di esserne sodisfatto, chennon è solito.»2 Lo Stella, qualunque si fosse la ragione, non stampò la traduzione del Dionigi; e il Leopardi qualche tempo dopo, tornando a rivederla, la giudicò scritta con tale affettazione, che avrebbe temuto di rendersi ridicolo divulgandola.3
Lo stesso presso a poco gli accadde di tutti gli altri lavori, sia tradotti sia originali, da lui composti