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studi giovanili | 61 |
di scrivere castigata e corretta; e si mise allora tutto con grande ardore nello studio della lingua italiana e dello stile; al che gli giovò grandemente l’alternaro alla lettura dei classici italiani le traduzioni dai poeti greci e latini.
Traducendo egli intendeva di mettersi in gara con gli originali, e con gli altri scrittori che avevano tradotto le stesse opere prima di lui. Se nella gara non potè riportare la palma, il tradurre fu per lui un esercizio utilissimo. Le sue traduzioni sono tutt’altro che impeccabili, e rimangono assai lontane dal pregio degli originali; ma lo vennero addestrando all’ uso del linguaggio poetico, al maneggio della verseggiatura, e gli vennero aprendo a poco a poco i più riposti segreti dell’arte. Paragonando le prime traduzioni con le seconde, e queste con le terze, si scorge in tutte il rapido progresso che il traduttore veniva facendo. Egli le ripudiò poi tutte, come imperfette e lontane dall’ideale cui mirava; ma a mostrare la cura che metteva in esse basta il fatto che rifece per ben due volte la traduzione della Batracomiomachia.
Nei primi tentativi di crearsi una forma di scrivere corretta ed elegante, il Leopardi, com’è naturale, cadde nel vizio contrario a quello che fuggiva. Fuggiva la sciatteria; cadde nell’affettazione. Ciò apparisce sopra tutto negli scritti in prosa. Se la prosa del Saggio è macchiata da qualche gallicismo, né sempre corretta, ha però un’andatura franca e disinvolta, che invano si cerca negli scritti in prosa dei due anni seguenti, gli anni della conversione. Nel Saggio lo scrittore dice quel che vuol dire, alla buona, senza prendersi soggezione del lettore, e perciò riesce piacevole ed efficace; nel preambolo alla traduzione del secondo libro dell‘Eneide lo scrittore non è più lui; pare che abbia paura della semplicità e della naturalezza; sfugge le parole e le espressioni comuni e