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60 capitolo iii.

voleva con l’Inno fare opera d’arte, da emulare niente meno che i Greci? «Innamorato, scrive egli, della poesia greca, volli fare come Michelangelo che sotterrò il suo Cupido, e a chi dissotterrato lo credeva d’antico, portò il braccio mancante. E mi scordava che se egli era Michelangelo, io sono Calandrino.»1

Ad uno che scrive così si può credere quando afferma che disprezza e calpesta Omero? Quella sua confessione di barbarie fatta al Giordani con la lettera dell’aprile 1817, spogliata di ogni esagerazione e ristretta al suo giusto significato, non vuol dire altro che questo che già accennai; ch’egli cioè fino al 1815, scrivendo in italiano, non aveva posto cura nella forma, sopra tutto non aveva badato alla purità della lingua.

La Poetica d’Orazio travestita, il Pompeo ed altre poesie minori composte negli anni 1811 e 1812, stan lì ad attestare che nel Leopardi e’ era fin da ragazzo la tendenza e l’ attitudine all’ arte ed alla poesia. Quella tendenza, se nella prima foga degli studi eruditi parve per un tratto di tempo sopita, si ridestò a poco a poco per effetto degli studi stessi. Quei poeti greci e latini che il giovine autore compulsava e rileggeva per citarli nei suoi dotti lavori, lo richiamavano alle bellezze dell’arte; ed egli, conciliando l’amore di questa con l’amore della erudizione, si diede allora a tradurre di proposito dai poeti greci e latini e ad illustrare criticamente ed esteticamente le poesie che traduceva. L’un lavoro aiutava o compiva l’altro: lo scrittore esercitava al tempo stesso le sue facoltà ar- tistiche le critiche. Così nacquero lo traduzioni da Mosco, da Omero, da Esiodo, da Virgilio, e i discorsi critici che le accompagnano. In questo modo avvenne la conversione letteraria del Leopardi, la quale insomma non è altro che il suo ritorno alla poesia o all’arte. Quel ritorno gli foce sentire il pregio di una forma

  1. Epistolario, vol. I, pag. 71.