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58 | capitolo iii. |
l’Inno a Nettuno, e tradotto il Primo libro dell’Odissea e il Secondo dell’Eneide; nel 1817 aveva scritto i Sonetti in persona di Ser Pecora, e la prima Elegia, e tradotto La Torta e la Titanomachia. Che l’intendimento di questi lavori fosse, come ho detto, principalmente, se non esclusivamente, letterario ed artistico, appare dalla natura di essi, ed è confermato da ciò che in proposito delle traduzioni l’autore scriveva al Giordani nell’aprile del 1817: «Quando ho letto qualche Classico, la mia mente tumultua e si confonde. Allora prendo a tradurre il meglio, e quelle bellezze per necessità esaminate e rimenate a una a una piglian posto nella mia mente, e l’arricchiscono e mi lasciano in pace.»1
Fino al 1815, nelle opere ch’era venuto scrivendo, non si era dato gran cura della espressione, aveva badato più alle cose che alle parole. Lo confessa egli medesimo al Giordani con quella stessa lettera dell’aprile 1817: «Io disprezzava, anzi calpestava (scrive egli, non senza un po’ d’esagerazione) lo studio della lingua nostra; tutti i miei scrittacci originali erano traduzioni dal francese; disprezzava Omero, Dante, tutti i Classici; non volea leggerli; mi diguazzava nella lettura che ora detesto: clii mi ha fatto mutar tuono? La grazia di Dio.» E soggiunge che nei primi del 1816, leggendo nella Biblioteca italiana gli scritti di lui Giordani, essi aveano dato «stabilità e forza alla sua conversione ch’era sul cominciare.»2
Queste parole confermano che la sua conversione letteraria (egli la chiama conversione alle lettere belle) avvenne per un moto spontaneo, e quasi inconsapevole, della sua monte; e ribadiscono la conforma questo altro pardo allo stesso (Giordani in altra lettera del 20 maggio 1817: «È un anno e mezzo che io quasi