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416 CAPITOLO XX. che fossero tutte invenzione del poeta, non e' è da meravigliarne; e non sarebbe giusto accusarlo per ciò di poca sincerità. La sincerità del poeta dobbiamo cercarla nelle cose veramente rilevanti, non in questi rapporti col padre; il quale, dopo tutto, era, per la educazione data ai figliuoli, il vero e solo colpevole delle loro bugie. Chi vorrà, per esempio, accusare di falsità il povero Giacomo perchè nel luglio del 1832 scrisse da Firenze che faceva dire tridui e novene per implorare da Dio una pronta morte, se quello, che può parere un' atroce ironia, era l'argomento migliore per indurre i genitori a fargli un piccolo assegno?

Il De Sinner, il Bunsen, la Tommasini e la Mae- stri furono quasi le sole persone, oltre quelle della propria famiglia, con le quali il Leopardi mantenne corrispondenza epistolare durante la sua dimora a Napoli. Anche dalle lettere alla Tommasini e alla Maestri risulta che il desiderio e la speranza di andar via da Napoli l'aveva avuta, e l'aveva: ma la speranza era destituita d'ogni probabilità di attuazione ; e il desiderio derivava anzitutto dalla consueta sua scon- tentezza ed irrequietezza, poi dal dispiacere, quasi dal rimorso, di essere da tanto tempo lontano dai suoi, finalmente dal sentirsi come isolato dal resto del mondo, dal suo mondo di Bologna, di Firenze, di Koma, col quale aveva dovuto, a cagione delle sue ma- lattie, rompere quasi ogni relazione. Se di tratto in tratto riceveva qualche rara notizia di quel mondo, essa gli veniva da casa Tommasini o da casa Maestri; ma alcuno di quello lettore andavano perdute ; onde passavano mesi e mesi, anzi anni, senza ch'egli sa- pette più niente di nessuno.