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LA FINE dell' ULTIMO AMOBE. 399 donna amata sarebbe stata per il Leopardi la suprema delle felicità ; ma la morte, che tante volte e in tante guise invocò nei due anni di quello sciagurato amore, fu sempre sorda alle sue preghiere: invece, d'un tratto, dalle altezze ideali, da quel paradiso di sogni, nel quale errava in balìa del suo dolce pensiero, si sentì preci- pitare nel fango della vita : ebbe come ribrezzo di st^, e ruppe in quell'angoscioso grido: Ornai disprezza Te, la natura, il brutto Poter che, ascoso, a comun danuo impera, E l'infinita vanità del tutto. Oramai il pessimismo leopardiano era giunto al- l'estremo limite. Chi governava l'universo non era più Dio, né la natura, né il fato; era una potenza malvagia, Ariraane. E ad Arimane volle ora sciogliere un canto, di cui non compose che l'abbozzo, il quale finisce con queste parole: < Concedimi ch'io non passi il settimo lustro. Io sono stato, vivendo, il tuo maggior predi- catore ec, l'apostolo della tua religione. Ricompen- sami. Non ti chiedo nessuno di quelli che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il mas- simo de' mali, la morte (non ti chiedo ricchezze ec, non amore, sola causa degna di vivere ec.). Non posso, non posso più della vita. >' Probabilmente questo abbozzo fu scritto dal Leo- pardi mentre aspettava il ritorno del Ranieri da Na- poli nel marzo o nell'aprile del 1833. Il 29 giugno di quell'anno egli finiva il suo settimo lustro. • Nelle carte napoletane ora in corso di stampa.