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336 CAPITOLO XVII. Il Colletta da una parte e i Tommasini dall'altra facevano sforzi sovrumani per trovare al Leopardi l'impiego ch'egli desiderava: ma intanto passavano i mesi, e le condizioni sue, specialmente dell' animo, andavano di dì in dì peggiorando. 11 19 maggio, non potendone più della sua solitudine, scriveva all'amico Puccinotti, pregandolo di andarlo a trovare. < Non so, gli diceva, se mi conoscerai più: non mi rico- nosco io stesso : non son più io : la mala salute e la tristezza di questo soggiorno orrendo mi hanno finito. >* Mentre egli si struggeva così, Monaldo tanto poco conosceva il figliuolo, che, scrivendo al Bunsen, gli dava notizie di lui piuttosto sodisfacenti; e Giacomo, saputo ciò dal Bunsen stesso, si affrettava a correg- gerle: < Mio padre, il quale ama d'immaginarsi che nella casa paterna io stia meglio che altrove, le ha dato del mio stato un' idea ben diversa dal vero. Non solo i miei occhi, ma tutto il mio fisico, sono in istato peggiore che fosse mai. Non posso né scrivere, né leggere, nò dettare, nò pensare. Questa lettera sinché non l'avrò terminata, sarà la mia sola occupa- zione, e con tutto ciò non potrò finirla se non fra tre quattro giorni. Condannato per mancanza di mezzi a quest'orribile e detestata dimora, o già morto ad ogni godimento e ad ogni speranza, non vivo che per patire e non invoco che il riposo del sepolcro. >' Erano passati quasi dieci mesi; e lo speranze di un impiego accarezzate dui poeta cominciavano a di- leguarsi. Delle cattedre di Firenze e di Livorno nes- suna notizia: quella di l'arnia era gii\ tramontata; cioò il Leopardi Htcsso aveva riconosciuto conveniente di rinunziarvi. Si trattava di una cattedra che c'era «tata una volta, ma allora non c'era più: il Maestri aveva proposto di ristabilirla per darla a Giacomo: ' h:i„^i„i.n,n, voi. II, png. '.wx ' Idoin, png. '170.