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284 CAPITOLO XIV. — SEMPEE A BOLOGNA. Questa lettera fa onore al cuore di Monaldo. Pover uomo ! Per compiere un' opera buona, anzi do- verosa di padre, doveva ricorrere a dei sotterfugi, come un figlio di famiglia scapestrato e interdetto, che vuole pagare un debito di giuoco o i favori di una ballerina. Giacomo rispose non facendo parola della profferta di denaro, e Monaldo capì che non aveva bisogno di niente. Prima di partire, il poeta dovè naturalmente fare le sue dipartenze con la Malvezzi, le quali dobbiamo credere che fossero affettuose e cortesi. La loro rela- zione durava oramai da cinque o sei mesi ; e non c'è ragione di dubitare che si fosse in questo tempo rallentata, o raffreddata. Non sappiamo se nelle con- versazioni ultime seguitassero, come nelle prime, a confidarsi tutti i loro segreti, a riprendersi, ad avvi- sarsi dei loro difetti ; se la contessa piangesse quando il poeta le leggeva gli scritti suoi, se il poeta fosse largo di lodi agli scritti di lei, che allora gli dove- vano piacere. Ad ogni modo non mancò certo materia di discorso a quelle loro eterne conversazioni; e se la contessa ne provò talora un po' di stanchezza, non pare no desse segno. Chi sa quanto cose in quei lunghi colloqui usci- rono dalla l)0cca del Leopardi, che avrebbero vivo interesse per noi! Peccato che la traduttrice di Cicerone non avesse la felice idea di tenerne ricordo. Quei ri- cordi avrebbero raccomandato il nome di lei alla po- sterità meglio di tutto lo altro suo opere. Congedandosi dalla gentile amica, Giacomo portò con so la promessa ch'ella gli avrebbe scritto non poche lettere; ma le lettere, vedremo, si fecero inu- tilmente Aspettare.