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130 | capitolo vi. |
e fa paura.1 Racconta egli stesso di sé che un giorno, probabilmente in quel tempo, seduto sull’orlo della vasca, guardava l’acqua, e curvandocisi sopra, con un certo fremito pensava: «S’io mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla mi arrampicherei sopra quest’orlo, e sforzatomi d’uscir fuori, dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso proverei qualche istante di contento per essermi salvato, e di affetto a questa vita che ora tanto disprezzo.»2
L’idea della fuga gli era passata per la testa da un pezzo, fin da quando avea conosciuto la sua condizione e i principii immutabili di suo padre; ed aveva risoluto di mandarla ad effetto fino dagli ultimi di giugno, quando scriveva al Giordani quella disperata lettera, nella quale è pure un cenno del triste proposito a cui la disperazione lo avrebbe condotto. Tuttavia la cosa doveva parergli così grave, che lasciò passare più di un altro mese prima di prepararne la esecuzione.
In cotesto tempo la sua tristezza era divenuta veramente spaventevole. Monaldo o non so ne accòrse, o non ne fece caso: se ne accorsero però Carlo e Paolina, e forse la zia Ferdinanda Melchiorri, che allora era a Recanati; ma nessuno di loro sospettò niente de’ suoi disegni. Finalmente il 29 luglio Giacomo scrisse a Macerata al conto Xaverio Broglio d’Alano, amico della famiglia, pregandolo, anche a nome del padre, di ottenergli un passaporto per il regno lombardo-veneto. Aveva divisato di partire di nascosto e andare a Milano, dove forse sperava di potere, coll’aiuto dello Stella, del Giordani, del Monti di qualche altro amico, trovare un’occupazione che gli desse da vivere. Ad ogni modo meglio mettersi