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118 | capitolo vi. |
andò a poco a poco formandosi in casa Leopardi una terribile leggenda, che del migliore amico e confortatore di Giacomo, di colui che primo e meglio d’ogni altro lo comprese, l’amò e l’ammirò, e con la autorevole sua parola lo impose all’ammirazione dei contemporanei, fece il suo diabolico corruttore. Monaldo, due anni dopo (3 aprile 1820), scriveva al Brighenti che alla venuta del Giordani i suoi figli avevano cambiato natura.1 La contessa Ippolita Mazzagalli narrava al Piergili che Giacomo, tornando da Macerata col Giordani dopo quel giorno fatale, era tutto mutato.2 Ciò per chi conosce il Leopardi è (sia detto col dovuto rispetto alle persone) grottescamente ridicolo.
La leggenda formatasi allora si andò divulgando e allargando per modo, che fino il Gioberti e il Capponi la crederono una verità e contribuirono a diffonderla. Que’due bravi uomini conobbero di persona il Leopardi e il Giordani, ma non conobbero interamente l’animo nò dell’uno né dell’altro, e fondarono i loro giudizi sopra le apparenze, che sono spesso fallaci. Il Giordani nelle conversazioni era un gran parlatore, che non pure non nascondeva la sua incredulità, ma a volte pareva ostentarla; era lui che aveva, si può dire, scoperto il Leopardi, e pareva il suo maestro; il Leopardi, al contrario, era quasi timido, parlava poco, non si apriva a nessuno. Ciò naturalmente giovò ad accreditare la leggenda.
Ma chi ha studiato attentamente e spassionatamente l’animo e l’ingegno del Leopardi negli scritti suoi e nello lettere, sa ch’egli non senti l’influenza di nessuno dei suoi contemporanei, neppure letterariamente. Tanto meno la sentì nella politica e nella