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98 | capitolo v. |
morato. E veggo bene che l’amore dev’esser cosa amarissima, e che io pur troppo (dico dell’amor tenero e sentimentale) ne sarò sempre schiavo.»1
Volendo, dopo la partenza della signora, dar qualche sollievo al suo cuore, né sapendo farlo altrimenti, tentato inutilmente il verso, si mise a scrivere il Diario, ad oggetto di speculare minutamente le viscere dell’amore, e di potere sempre riandare appuntino la prima vera entrata nel suo cuore di questa sovrana passione.
Anche la notte della domenica ebbe sonno interrotto e delirante; ma il verso, che alla mattina era stato restio, gli si mostrò docile, e nella notte stessa, vegliando, cominciò a descrivere in versi i suoi affetti; seguitò a scrivere tutto il lunedì, e terminò la mattina del martedì successivo stando in letto.
L’aver composto i versi, dei quali egli era molto contento, lo riconciliò con la gloria e gli sfruttò il cuore; e lo sforzo mentale da lui fatto per eccitare e richiamare gli affetti e le imagini dell’amor suo, fece sì che quelli non essendo più, spontanei s’infievolissero. La forza del tempo, che poteva molto nell’animo del poeta, contribuì più d’ogni altra cosa a calmare la sua eccitazione. Cominciò a tornargli l’amore allo studio, cominciò a tornargli il sonno e l’appetito; di che egli talora sentiva dolore; e per prolungare al possibile lo stato amoroso, seguitava a scrivere il Diario.
Il 21 dicembre, cioè una settimana dopo la partenza della Cassi, notava in esso: «Il tempo pigliò avant’ieri e tutto ieri gran vantaggio sulla mia passione, la quale va adesso veramente scadendo e mancando.» E il giorno dopo: «Chiudo oggi queste ciarle, che ho fatte con me stesso por isfogo del cuor mio e perchè mi servissero a conoscere me medesimo
- ↑ Diario citato