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lvi | prefazione. |
quelle goffaggini di forma, e tutte quelle frasi peregrine, che cosí spiritosamente mette alla berlina. La monotona ripetizione della stessa rima del primo e secondo verso, nel quarto e quinto della strofe, non poteva sfuggire al fine orecchio del Chaucer. Certe rime, ad arte sbagliate, e l’uso di certe barbare parole, accanto a delle finezze di forma e di espressione che non si trovano negli altri racconti cavallereschi di questo genere, dimostrano non solo, in modo indiscutibile, che il fine del Cantare di Ser Thopas è la satira burlesca, ma provano anche la conoscenza mirabile che il Chaucer aveva della lingua, e la maestria con cui sapeva trattarla.
Ser Thopas è evidentemente il prototipo dei donchisciotteschi cavalieri dalla lunga lancia e il terribile sciabolone di questi vecchi cantari, nei quali è dipinto un mondo ridicolo e fittizio, dove tutto è convenzionale: i boschi, le piante, gli uccelli, e perfino la esilarante bevanda onde ogni bellicoso cavaliere si rinfrancava prima di cimentarsi. Non è improbabile, come altri notò, che nel Cantare di Ser Thopas il Chaucer abbia ri-