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novella del cavaliere. | 143 |
ria; e chi non la pensa cosí si ostina ad essere uno sciocco. Perché, dunque, noi ci lamentiamo e non sappiamo rassegnarci che il nostro Arcita, il fiore della cavalleria, sia uscito con tanta lode ed onore da questa brutta prigione che è la vita? Perché si lamentano, qui, la moglie sua e il suo cugino, che pur gli volevano tanto bene, della sorte che gli è toccata? Deve egli ringraziarli di questo? No davvero, e lo sa Dio stesso, poiché col pianto offendono l’anima di Arcita e se medesimi, solamente per soddisfare il desiderio proprio.
Quale è, dunque la conclusione di questo mio lungo discorso? È questa: io penso che noi dopo tanto dolore dobbiamo ormai stare un po’ allegri, e ringraziare Giove della sua bontà. Prima che ci lasciamo, noi dobbiamo fare di due dolori una sola e completa gioia che duri eterna. Vedete, tra le persone qui presenti ce n’è una piú acerbamente di tutti colpita dal dolore: ebbene io voglio che la gioia incominci proprio da lei.
Sorella (indi soggiunse) è desiderio mio e della mia corte, che il gentil Palemone,