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130 | novella del cavaliere. |
Il petto del povero Arcita incominciò a gonfiare, e il male cresceva sempre più nel cuor suo. Il sangue che per effetto del colpo si era aggrumato nell’interno, nonostante tutte le arti del medico, si corruppe dentro il corpo, e non giovavano piú né salassi né ventose né bevande di qualunque erba. La forza espulsiva o animale, detta appunto per questo forza naturale, non riusciva a cacciar fuori il veleno e ad espellerlo dal corpo. I lobi polmonari cominciarono a gonfiarsi, e il sangue guasto dal male ammorbava ogni muscolo nel suo petto. Non gli valsero, a salvare la vita, gli emetici e le purghe; il suo corpo intero era in dissoluzione, e la natura non aveva più alcun potere sopra di lui. E quando la natura non può fare piú nulla, addio medicina: portate pure il malato in chiesa. La conclusione, insomma, è questa: Arcita era condannato a morte; e poiché egli lo sentiva, mandò a chiamare Emilia e il suo diletto cugino Palemone, e disse cosí:
“Il mio spirito addolorato non può manifestarti la millesima parte di quello che io soffro, o mia signora, che io amo immensa-