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novella del cavaliere. 67


Palemone, intanto, appena seppe che Arcita se ne era andato, cominciò a disperarsi in modo, che la gran torre echeggiava delle sue grida e dei suoi pianti. Fin le catene che aveva ai piedi erano bagnate delle sue amare lacrime.

“Ahimé, diceva, o cugino Arcita, Dio sa se di noi due tu sei quello, pur troppo, che ha guadagnato nella lite che ci ha divisi.

Tu ora cammini liberamente per le vie di Tebe, e poco ti importa del mio dolore. Tu se vuoi, bravo e coraggioso come sei, puoi radunare tutta la gente del sangue nostro, e far con essa una guerra cosí accanita al regno di Teseo da ottenere, per un evento qualunque, o come prezzo della pace, la mano di colei per la quale è destinato che io muoia. Poiché quale probabilità posso avere di possederla, col vantaggio che tu hai di essere fuori di prigione e libero di te, mentre io sono costretto a morire rinchiuso in una gabbia? Ormai posso rassegnarmi a piangere e a disperarmi per tutta la vita, per le sofferenze che mi dà la prigionia, alle quali si aggiungono i tor-