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[1540-1543] Sapere, studio, ignoranza 519


1540.        Vagliami il lungo studio e il grande amore
     Che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e il mio autore:
     Tu se’ solo colui, da cui io tolsi
     Lo bello stilo che m’ha fatto onore.

(Inferno, c. I, v. 83-87).

quella venerazione che ai discepoli degli antichi filosofi faceva ossequiosamente

1541.   Jurare in verba magïstri.1

(Orazio, Epist., I, 1, 14; Seneca, Epist., 12, 10).

con frase che ricorda le altre locuzioni Ipse dixit (αὐτὸς ἔφα), Magister dixit, che erano già proverbiali presso gli antichi (vedi p. es. Cicerone, De natura Deorum, I, 5, 10, parlando dei Pitagorici: «quos ferunt, si quid.... ita esset, respondere solitos Ipse dixit»; e anche Quintiliano, Inst. Orat., XI, 1, 27), ma furono certamente popolarizzate dalla Scolastica medievale. Il Fiorentino nel Manuale di storia della filosofia, P. I (Napoli, 1879, a pag. 87), scrive di Averroè, il quale, se non fu il primo a tradurre e commentare Aristotile, come per errore si diceva, fu il più grande tra i commentatori arabi: «Prima di commentare ei soleva riportare intero o compendiato il testo di Aristotile, preceduto sempre dalla parola Kdl, dixit; donde forse l’ipse dixit

Però, se ottima cosa è la scuola, non basta a formare la mente dell’uomo, che veramente si tempra nella diuturna esperienza della vita, quindi, giustamente si doleva Seneca che:

1542.   Non vitæ sed scholæ discimus.2

(Epist., 106, 11 fin.).

La nota sentenza:

1543.   Indocti discant et ament meminisse periti.3

  1. 1541.   Giurare sulle parole del maestro.
  2. 1542.   È nostro vizio d’imparare più per la scuola che per la vita.
  3. 1543.   Imparino gl’ignoranti, e godano i dotti di rinfrescare le loro cognizioni,